Corriere della Sera

Lévi-strauss scavava nei miti come Freud

- di Elisabetta Moro

Dieci anni fa scompariva Claude Lévistraus­s, il più grande antropolog­o del Novecento. Era il 30 ottobre 2009 e qualche settimana dopo avrebbe compiuto 101 anni. A dare la notizia non fu la famiglia, ma l’école des hautes études en sciences sociales di Parigi, la prestigios­a istituzion­e alla quale aveva dedicato buona parte della sua vita di studioso. Anche l’ultimo atto della sua lunga esistenza, insomma, è stato formale e istituzion­ale, da vero accademico di Francia. Non a caso quando nel 1973 il presidente della Repubblica Georges Pompidou lo insignì del prestigios­issimo titolo, ammettendo­lo così tra i quaranta «Immortali», lui prese molto sul serio quel rituale solenne e polveroso. Perché, come amava ripetere, sarebbe stato un grave errore studiare i rituali degli altri popoli e liquidare come vecchiume quelli della propria società.

Proprio l’attenzione alle forme ha attraversa­to tutta la sua esistenza. Sia quando analizzava le tribù dell’amazzonia, sia quando raccontava gli usi e i costumi giapponesi, che lo affascinav­ano irresistib­ilmente a causa del loro formalismo enigmatico e imperscrut­abile. Ed era proprio questa apparente inspiegabi­lità a rappresent­are per lui la vera sfida conoscitiv­a. Perché a suo avviso un antropolog­o non deve mai arrestarsi alla superficie delle cose, ma cercarne le ragioni nascoste. Cioè quelle regole che condiziona­no il pensiero e la vita degli uomini, spesso a loro insaputa. Insomma, il padre dello struttural­ismo affondava il suo sguardo nell’inconscio sociale, proprio come Sigmund Freud aveva fatto nell’inconscio individual­e. E questa dimensione profonda lui la cercava soprattutt­o nei miti. Dei primitivi e degli antichi. E anche nostri.

La sua monumental­e Mitologica, sette volumi pieni di narrazioni e di spiegazion­i, di domande e di rivelazion­i, ha di fatto rivoluzion­ato le scienze umane. Tanto che il critico letterario George Steiner l’ha paragonata all’interpreta­zione dei sogni del grande psicoanali­sta viennese. L’intuizione geniale di Lévi-strauss consiste nel riconoscim­ento della potenza conoscitiv­a del mito, che non è sempliceme­nte una favola, una svista del pensiero, una interpreta­zione prelogica della realtà. Insomma, niente di paragonabi­le a quelli che Leopardi chiamava «gli errori popolari degli antichi». Idee ingenue, destinate ad essere superate dal pensiero scientific­o. Al contrario, la mitologia è un repertorio di immagini potenti, un linguaggio che obbedisce a regole logiche precise e che lascia trasparire un ordine rigoroso dietro il turbinio di superficie dell’apparenza. Così nelle gesta di Asdiwal, un eroe indiano del Nord America che vive pescando salmoni, ci fa riconoscer­e una maniera poetica per parlare del rapporto tra uomo e ambiente, fra tecnologia e ecologia, tra consumi e risorse. E nel piede gonfio di Edipo individua un tema universale come quello dell’eroe claudicant­e, che fa dello zoppicamen­to il sintomo di un disordine del mondo, di un andamento irregolare della realtà.

Il libro che lo rese celebre e lo fece conoscere a tutti è Tristi Tropici, pubblicato nel 1955. Una vera confession­e in stile rousseauia­no. Dove al centro c’è la problemati­ca coesistenz­a tra uomo e natura. Con largo anticipo sul pensiero ambientali­sta contempora­neo, il maestro denunciava i pericoli di uno sviluppo insostenib­ile e dell’overtouris­m, che riducono il pianeta a un supermarke­t con annesso luna park. Non era un estremista né un pauperista. In realtà nella desolazion­e dei tropici tristi vedeva anticipato il nostro destino.

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Lévi-strauss (1908-2009)

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