Lévi-strauss scavava nei miti come Freud
Dieci anni fa scompariva Claude Lévistrauss, il più grande antropologo del Novecento. Era il 30 ottobre 2009 e qualche settimana dopo avrebbe compiuto 101 anni. A dare la notizia non fu la famiglia, ma l’école des hautes études en sciences sociales di Parigi, la prestigiosa istituzione alla quale aveva dedicato buona parte della sua vita di studioso. Anche l’ultimo atto della sua lunga esistenza, insomma, è stato formale e istituzionale, da vero accademico di Francia. Non a caso quando nel 1973 il presidente della Repubblica Georges Pompidou lo insignì del prestigiosissimo titolo, ammettendolo così tra i quaranta «Immortali», lui prese molto sul serio quel rituale solenne e polveroso. Perché, come amava ripetere, sarebbe stato un grave errore studiare i rituali degli altri popoli e liquidare come vecchiume quelli della propria società.
Proprio l’attenzione alle forme ha attraversato tutta la sua esistenza. Sia quando analizzava le tribù dell’amazzonia, sia quando raccontava gli usi e i costumi giapponesi, che lo affascinavano irresistibilmente a causa del loro formalismo enigmatico e imperscrutabile. Ed era proprio questa apparente inspiegabilità a rappresentare per lui la vera sfida conoscitiva. Perché a suo avviso un antropologo non deve mai arrestarsi alla superficie delle cose, ma cercarne le ragioni nascoste. Cioè quelle regole che condizionano il pensiero e la vita degli uomini, spesso a loro insaputa. Insomma, il padre dello strutturalismo affondava il suo sguardo nell’inconscio sociale, proprio come Sigmund Freud aveva fatto nell’inconscio individuale. E questa dimensione profonda lui la cercava soprattutto nei miti. Dei primitivi e degli antichi. E anche nostri.
La sua monumentale Mitologica, sette volumi pieni di narrazioni e di spiegazioni, di domande e di rivelazioni, ha di fatto rivoluzionato le scienze umane. Tanto che il critico letterario George Steiner l’ha paragonata all’interpretazione dei sogni del grande psicoanalista viennese. L’intuizione geniale di Lévi-strauss consiste nel riconoscimento della potenza conoscitiva del mito, che non è semplicemente una favola, una svista del pensiero, una interpretazione prelogica della realtà. Insomma, niente di paragonabile a quelli che Leopardi chiamava «gli errori popolari degli antichi». Idee ingenue, destinate ad essere superate dal pensiero scientifico. Al contrario, la mitologia è un repertorio di immagini potenti, un linguaggio che obbedisce a regole logiche precise e che lascia trasparire un ordine rigoroso dietro il turbinio di superficie dell’apparenza. Così nelle gesta di Asdiwal, un eroe indiano del Nord America che vive pescando salmoni, ci fa riconoscere una maniera poetica per parlare del rapporto tra uomo e ambiente, fra tecnologia e ecologia, tra consumi e risorse. E nel piede gonfio di Edipo individua un tema universale come quello dell’eroe claudicante, che fa dello zoppicamento il sintomo di un disordine del mondo, di un andamento irregolare della realtà.
Il libro che lo rese celebre e lo fece conoscere a tutti è Tristi Tropici, pubblicato nel 1955. Una vera confessione in stile rousseauiano. Dove al centro c’è la problematica coesistenza tra uomo e natura. Con largo anticipo sul pensiero ambientalista contemporaneo, il maestro denunciava i pericoli di uno sviluppo insostenibile e dell’overtourism, che riducono il pianeta a un supermarket con annesso luna park. Non era un estremista né un pauperista. In realtà nella desolazione dei tropici tristi vedeva anticipato il nostro destino.