«Noi, nipoti dei sopravvissuti e il dolore che non passa»
La storia e il dovere della memoria
Ultima domenica di aprile, anno 2005, Times Square, New York. Una pioggerellina fitta e noiosa scendeva sulle cinquemila persone radunate ordinatamente intorno a un palco pavesato di bandiere rosso-bluarancione, i colori della Repubblica d’armenia.
Sul palco, due sedie, un paio di microfoni, due persone che si davano da fare coi fili e uno schermo. Io arrivai puntuale, per assistere alla cerimonia che ogni anno si svolge nella famosa piazza, cuore pulsante della metropoli, per commemorare l’inizio del genocidio armeno, la «grande retata» che iniziò il 24 aprile 1915, e che in tre giorni portò via dalle loro case nella capitale Costantinopoli tutta l’élite della minoranza armena all’interno dell’impero Ottomano.
Gli interventi si susseguirono, portando il ricordo e la partecipazione di uomini politici americani, leader religiosi, armeni della diaspora e della madrepatria, icone del coraggio degli armeni come
Charles Aznavour, e la folla si riscaldava sempre di più, man mano che venivano citati i nomi delle regioni perdute dell’anatolia Orientale: Van, Erzerum, Mush, Kharpert, come luoghi della sofferenza di un’intera nazione sui quali era calata la coltre di un pesante oblio.
Quando toccò a me, salii sul palco preparata a dire qualche frase di memoria e di amicizia, ricordando la mia appartenenza all’esigua comunità degli armeni d’italia. Presi in mano il microfono e guardai giù, verso la folla. Ma allora mi accorsi che in prima fila sotto il palco, ciascuno seduto nella sua carrozzella guidata da un giovane, c’erano gli ultimi sopravvissuti. Uomini e donne che orgogliosamente si tenevano diritti, e ciascuno reggeva una bandierina e un cartello col nome del paese da cui proveniva. Nomi che evocavano un’antica civiltà scomparsa nel fuoco e nel sangue da novant’anni, la cui memoria reale era conservata dai quei vecchi visi con le palpebre pesanti e lo sguardo affaticato.
Guardandoli negli occhi, io dimenticai le frasi che avevo preparato. Vedevo solo loro, e parlai a loro, trasmettendo l’emozione che mi aveva preso e il bisogno di abbracciarli, così esili e antichi nelle loro carrozzelle. E quando finii scesi dal palco e andai da loro, stringendo mani e chiedendo notizie, finché arrivai presso l’ultimo, che sembrava il più vecchio e veniva dal paese di mio nonno. Ma lui rifiutò la mia stretta di mano, mi guardò un po’ torvo e disse: «Ho 98 anni. Avevo otto anni quando tutto è successo, e mi ricordo tutto. Ogni anno mi portano a Washington e qualche personaggio importante mi dice che bisogna avere pazienza, che non è ancora il momento. Ma qual è il momento per la giustizia? Quanto pensano che io possa resistere?
Io non potrò aspettare ancora a lungo...».
Come uno schiaffo mi colpirono le sue parole. Capii improvvisamente che un genocidio non consiste solo negli eventi terribili del momento in cui è perpetrato, nel sangue e nelle violenze che mirano a distruggere un popolo intero; prosegue col negazionismo. Negazionismo: non sono solo parole, sono atti ben precisi, calcolati e studiati per spargere sale su ferite appena rimarginate, per creare confusione in menti abitate dal ricordo di violenze inaudite che vengono minimizzate o negate, col preciso scopo di venire infine dimenticate. Per gli armeni, ci fu una logica perversa in questo meccanismo diabolico, che li schiacciò. Dopo il trattato di Losanna del 1923, con la complicità delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, la stessa parola «armeni» scomparve, le centinaia di testimonianze pubblicate fra il 1915 e il 1921 furono consegnate all’oblio, i monumenti sparsi nell’intera Anatolia distrutti, i nomi dei luoghi cambiati. Le ombre del popolo perduto vagavano invano per l’armenia storica, nessuno le vedeva...
Ed è solo con noi, i nipoti di terza e quarta generazione, che un po’ alla volta la memoria è stata ristabilita. Passo dopo passo la realtà della piccola Armenia del Caucaso, tornata indipendente dopo la caduta dell’unione Sovietica, si è imposta come una nazione fra le altre, e si è ricominciato a parlare e a discutere del genocidio. Questa parola fu coniata dall’ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944, come testimoniò lui stesso in una celebre intervista televisiva, pensando agli armeni — della cui tragedia si occupava da vent’anni — prima che agli ebrei.
Molti parlamenti, uno dopo l’altro, hanno cominciato a riconoscere il genocidio degli armeni: e ieri è stato il momento della Camera degli Stati Uniti. È un atto che diffonde una verità storica, non ha conseguenze pratiche: e vorrebbe aiutare il popolo turco ad affrontare finalmente questo immenso «scheletro nell’armadio» che avvelena il Paese e lo priva della sua stessa memoria, come ha scritto molto bene Hasan Djemal, nipote di uno dei maggiori responsabili della tragedia, che ha scritto un commovente libro sull’argomento.
La verità necessaria Un genocidio non consiste solo nel sangue e nelle violenze: prosegue col negazionismo