Auto elettrica e sfida in Asia Ma la partita si gioca sugli impianti da chiudere
Le strategie e gli obiettivi affidati al ceo Tavares
Gli analisti la definiscono come l’ultima «finestra di opportunità» per Fiatchrysler prima di dover annunciare chiusure di stabilimenti non più al passo con i tempi e la certezza di ingenti investimenti per non perdere il treno della transizione tecnologica. Con il contestuale declino del diesel e dei motori a scoppio, anche per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Uno scenario da far tremare ai polsi anche per le centinaia di migliaia di addetti coinvolti nell’automotive in Europa. Che porta ad «aggregazioni di emergenza» tra produttori non più procrastinabili, anche per la spinta alla guida autonoma che permette l’ingresso di nuovi concorrenti dal lato dei software.
A conti fatti è un matrimonio necessario. Dettato dalla sopravvivenza futura di due attori di taglia media come Fiat-chrysler e Psa che insieme costruiscono il terzo produttore globale scavalcando General Motors e ponendosi come alfiere possibile di rottura del duopolio nippo-tedesco Toyota-volkswagen che veleggiano oltre 10 milioni di veicoli all’anno. Con benefici sulle economie di scala per la condivisione di piattaforme e la riduzione dei costi operativi a cui aggiungere il ritorno sulla generazione dei flussi di cassa.
Eppure i nodi sul tavolo restano e interrogano i due governi coinvolti. Quello francese in qualità di azionista della società risultante. E quello italiano che ha appena inaugurato al ministero dello Sviluppo un tavolo sull’auto per gestire le ricadute sociali derivanti dalla transizione. Il primo riguarda gli stabilimenti: le sovrapposizioni in Europa saranno inevitabili. Non è impensabile supporre che qualche impianto possa essere sacrificato anche per ridurre i costi e i sindacati, per questo, sono già in apprensione. È indubbio che Parigi è in posizione di vantaggio. È socio diretto. E le deleghe di gestione toccano a Carlos Tavares, amministratore delegato di Psa. Il secondo riguarda la Cina. Né Fca né Psa hanno numeri sufficienti per aggredire al momento un mercato che vede i produttori cinesi in enorme vantaggio sulle batterie, detonatori dello choc tecnologico provocato dall’elettrico. Non a caso dal Tesoro francese si pone l’accento sulla «creazione di una filiera europea delle batterie».
Sul fronte finanziario, con la consulenza di Mediobanca, la fusione è stata costruita 50% a 50% con un consiglio composto da undici componenti, sei di Psa e cinque per Fca compreso John Elkann presidente, e inevitabili compensazioni. Un dividendo straordinario per gli azionisti Fca di 5 miliardi in virtù del fatturato maggiore della casa italo-americana. Un assegno staccato ad Exor, la scatola societaria di famiglia Agnelli assistita da Lazard, di circa 1,7 miliardi. Un’extra-cedola anche per i fondi istituzionali (da Vanguard a Blackrock) e i piccoli soci. I francesi invece scorporeranno, mettendola sul mercato, la società di componentistica Faurecia di cui detengono il 46%, emulando Fca con Magneti Marelli.
Un’aggregazione che copre tutti i segmenti di mercato e un variegato portafoglio di marchi tra Peugeot, Citroen, Vauxhall, Opel (integrata con successo da Psa che l’ha ribaltata come un calzino dopo averla acquistata da Gm), Maserati, Jeep, Ram e Fiat. Resta l’incognita dei cinesi di Dongfeng, azionisti al 12,3% di Psa. L’ipotesi è che possano rimanere nel capitale non sfruttando l’eventuale plusvalenza derivante dall’acquisto ad un prezzo di carico più basso. Così sembra avverarsi una frase sibillina di Sergio Marchionne del novembre 2017: «Quando non ci sarò più tutto verrà venduto».