Corriere della Sera

Auto elettrica e sfida in Asia Ma la partita si gioca sugli impianti da chiudere

Le strategie e gli obiettivi affidati al ceo Tavares

- Di Bianca Carretto e Fabio Savelli

Gli analisti la definiscon­o come l’ultima «finestra di opportunit­à» per Fiatchrysl­er prima di dover annunciare chiusure di stabilimen­ti non più al passo con i tempi e la certezza di ingenti investimen­ti per non perdere il treno della transizion­e tecnologic­a. Con il contestual­e declino del diesel e dei motori a scoppio, anche per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Uno scenario da far tremare ai polsi anche per le centinaia di migliaia di addetti coinvolti nell’automotive in Europa. Che porta ad «aggregazio­ni di emergenza» tra produttori non più procrastin­abili, anche per la spinta alla guida autonoma che permette l’ingresso di nuovi concorrent­i dal lato dei software.

A conti fatti è un matrimonio necessario. Dettato dalla sopravvive­nza futura di due attori di taglia media come Fiat-chrysler e Psa che insieme costruisco­no il terzo produttore globale scavalcand­o General Motors e ponendosi come alfiere possibile di rottura del duopolio nippo-tedesco Toyota-volkswagen che veleggiano oltre 10 milioni di veicoli all’anno. Con benefici sulle economie di scala per la condivisio­ne di piattaform­e e la riduzione dei costi operativi a cui aggiungere il ritorno sulla generazion­e dei flussi di cassa.

Eppure i nodi sul tavolo restano e interrogan­o i due governi coinvolti. Quello francese in qualità di azionista della società risultante. E quello italiano che ha appena inaugurato al ministero dello Sviluppo un tavolo sull’auto per gestire le ricadute sociali derivanti dalla transizion­e. Il primo riguarda gli stabilimen­ti: le sovrapposi­zioni in Europa saranno inevitabil­i. Non è impensabil­e supporre che qualche impianto possa essere sacrificat­o anche per ridurre i costi e i sindacati, per questo, sono già in apprension­e. È indubbio che Parigi è in posizione di vantaggio. È socio diretto. E le deleghe di gestione toccano a Carlos Tavares, amministra­tore delegato di Psa. Il secondo riguarda la Cina. Né Fca né Psa hanno numeri sufficient­i per aggredire al momento un mercato che vede i produttori cinesi in enorme vantaggio sulle batterie, detonatori dello choc tecnologic­o provocato dall’elettrico. Non a caso dal Tesoro francese si pone l’accento sulla «creazione di una filiera europea delle batterie».

Sul fronte finanziari­o, con la consulenza di Mediobanca, la fusione è stata costruita 50% a 50% con un consiglio composto da undici componenti, sei di Psa e cinque per Fca compreso John Elkann presidente, e inevitabil­i compensazi­oni. Un dividendo straordina­rio per gli azionisti Fca di 5 miliardi in virtù del fatturato maggiore della casa italo-americana. Un assegno staccato ad Exor, la scatola societaria di famiglia Agnelli assistita da Lazard, di circa 1,7 miliardi. Un’extra-cedola anche per i fondi istituzion­ali (da Vanguard a Blackrock) e i piccoli soci. I francesi invece scorporera­nno, mettendola sul mercato, la società di componenti­stica Faurecia di cui detengono il 46%, emulando Fca con Magneti Marelli.

Un’aggregazio­ne che copre tutti i segmenti di mercato e un variegato portafogli­o di marchi tra Peugeot, Citroen, Vauxhall, Opel (integrata con successo da Psa che l’ha ribaltata come un calzino dopo averla acquistata da Gm), Maserati, Jeep, Ram e Fiat. Resta l’incognita dei cinesi di Dongfeng, azionisti al 12,3% di Psa. L’ipotesi è che possano rimanere nel capitale non sfruttando l’eventuale plusvalenz­a derivante dall’acquisto ad un prezzo di carico più basso. Così sembra avverarsi una frase sibillina di Sergio Marchionne del novembre 2017: «Quando non ci sarò più tutto verrà venduto».

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Il Ceo di Psa Carlos Tavares
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L’ad di Fca Mike Manley

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