Ecco cosa ho imparato leggendo «Il colibrì» di Sandro (Veronesi)
Una storia appassionante e un eroe in cui identificarsi nel libro edito da La nave di Teseo Piperno rende omaggio allo scrittore: il suo è un grande romanzo, il più ispirato
Gli scrittori sbagliano (quasi sempre) a sentirsi incompresi. E sbagliano (sempre) a non prendersela con se stessi, invece che con i lettori che non li leggono, gli editori e gli uffici stampa che non li valorizzano, i giornali, i social, le tv che non li tengono nella dovuta considerazione. Se c’è una cosa che avverti all’impronta è l’odore di buono che emana un buon libro. Può essere un profumo che non fa per te, ma se sei un tipo sincero e non coltivi pomposi pregiudizi estetici o ideologici, e soprattutto se disponi di olfatto adeguato, basta una sniffatina come si deve per dire a te stesso con sollievo: eccolo qui, l’odore di buono che cercavi.
Con Il colibrì di Sandro Veronesi è stata sufficiente questa frase alla settima riga: «Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante», per farmi capire che stavolta l’odore era inebriante.
Più tale fragranza mi eccita, più avverto un’irresistibile necessità di capire il perché, più sono portato a scriverne. Il guaio è che scrivere del libro di Veronesi significa tradire una consolidata pluriennale abitudine a non occuparmi pubblicamente dei romanzi scritti da un mio connazionale. Un’autolimitazione che non ha mai avuto niente a che fare con il pregiudizio nei confronti della letteratura italiana contemporanea, più in salute di quanto non dicano gli snob (e alla quale io stesso ogni tanto verso il mio inessenziale obolo). Bensì da una scelta igienica atta a scongiurare sul nascere promiscuità amicali, marchette editoriali, vendette private.
Sono felice di tradire i miei scrupoli deontologici con Il colibrì di Sandro (perdonatemi se d’ora in poi mi limiterò al nome di battesimo: non è per la distratta amicizia che ci lega, ma perché, parafrasando Holden, quando ti piace un libro hai voglia di dare del tu a chi l’ha scritto). Del resto — mi ripeto con autoindulgenza — questa non è una recensione: è un omaggio, un appunto, un’estatica divagazione che prende forma sullo schermo del computer e nel mio cuore quasi malgré moi. Il grande Edmund Wilson diffidava i critici dal fornire le proprie personali impressioni di lettura. Non vedo l’ora di non seguire i suoi consigli e di disattendere le sue sagge indicazioni.
Quando la scorsa estate ho letto le prime pagine del romanzo anticipate da «la Lettura» ho pensato ch’era davvero un attacco efficace ma anche che era un tipico attacco alla Sandro Veronesi. Subito, infatti, mi sono detto: vabbé dai, Sandro padroneggia come pochi l’arte di iniziare romanzi. Venite venite B-52, La forza del passato, Caos calmo, XY, Terre rare: non ce n’è uno che non ti faccia sentire un alienato per come t’incolla alla pagina. A guardarli bene, questi inizi, perseguono sempre un’affine strategia retorica. C’è un tizio (di solito un borghese di origini toscane, belloccio, ammodo, benestante, ingenuo, fragile, irreprensibile, professionalmente e sentimentalmente soddisfatto) che un giorno, nel mezzo della sua bella prospera vita, va a sbattere il muso su una verità che non solo manda in frantumi ogni cosa ma che lo induce a rivedere e rettificare il giudizio fin troppo benevolo che fin lì ha voluto dare di sé e dei suoi cari. Così avviene anche a Marco Carrera nel Colibrì. È lì nel suo studio di oculista alle prese con le solite occupazioni quando riceve la visita dello psicoterapeuta della moglie che lo mette di fronte a un’evidenza inaccettabile che spalancherà il vaso di Pandora su una miriade di altre evidenze altrettanto inaccettabili.
Il guaio di Sandro, mi son detto dopo aver letto le promettenti prime pagine, è che non sempre i suoi inizi tonitruanti mantengono le promesse. Sia XY che Terre
rare — per stare a due libri che ho amato — si perdevano nell’intreccio. Un po’ come Marías, altro eminente scrittore contemporaneo, anche Sandro inizia i suoi romanzi alla garibaldina per poi smarrirsi strada facendo, talvolta per eccesso di generosità.
Ho preso una bella cantonata.
Il colibrì ha smontato il mio pregiudizio pagina dopo pagina, senza scampo. Non mi sono trovato, infatti, di fronte alla riedizione de La forza del passato, ma a qualcosa di più grande e impellente. Il mio professore del liceo lo avrebbe chiamato «crescendo» wagneriano. Il colibrì è il romanzo più ispirato scritto da uno dei nostri più ispirati scrittori. C’è tutto Sandro, il suo genio cristallino, i colpi di tacco e le proverbiali fissazioni: dialoghi funambolici, tassonomie, liste della spesa, citazioni occulte e manifeste, il sacro fuoco progressista e il disprezzo per la parte oscura acquattata in ciascuno di noi: invidia, risentimento, avidità.
Il libro è un album di famiglia fatto di memorabili «tranche de vie» che restituiscono il dramma e le gioie di una vita che se n’è andata troppo in fretta
Per citare un libro di un autore che piace più a Sandro che a me, Il colibrì è pieno di vita e pieno di morte. E il paradosso è servito: la vita e la morte nel magico mondo della narrativa stanno talmente bene assieme da non poter fare a meno l’una dell’altra. Ribaltando un celebre cliché, vien da pensare che nei romanzi finché c’è morte c’è speranza. E il numero di cadaveri nel Colibrì è talmente elevato che neanche al camposanto. Le morti violente e premature sono persino più numerose di quelle naturali. E allora perché mentre leggi vieni letteralmente inondato da gelide secchiate di vita? La spiegazione è semplice. Il protagonista occulto di tutti i romanzi riusciti è il Tempo, ovvero quella strana ineffabile entità che distribuisce la vita e la morte come più le aggrada. Sandro, a sessant’anni suonati, avendo imparato sulla pelle che il Tempo è anzitutto una prigione, un carcere di massima sicurezza, ha agito di conseguenza. Come? Così: apprestando un montaggio apparentemente causale, in realtà genialmente meditato, affibbiando a ogni singola scena una pre