Corriere della Sera

IL WEB HA BISOGNO DI REGOLE NON DI «CENSURA PRIVATA»

- Di Giovanni Pitruzzell­a

L’ ignobile campagna d’odio contro la senatrice Segre ha riproposto all’attenzione pubblica il tema di come contrastar­e il diffonders­i di discorsi d’odio e false informazio­ni sul web. Per affrontare questo problema bisogna rispondere a un interrogat­ivo preliminar­e: chi deve stabilire le regole sulla libertà di informazio­ne in Internet? Tali regole devono essere decise autonomame­nte dalle società tecnologic­he oppure c’è un ruolo che dovrà essere svolto dagli Stati?

Mark Zuckerberg ha annunciato che istituirà un Tribunale di appello al quale chiunque potrà rivolgersi per contestare le decisioni adottate da Facebook sui contenuti da lasciare e quelli da rimuovere dalla piattaform­a. Un tribunale privato che esercitere­bbe, secondo regole stabilite da un’impresa, la giurisdizi­one sui conflitti che riguardano la libertà di informazio­ne nella rete.

Recentemen­te alcune società tecnologic­he (Google, Facebook, Twitter, Microsoft, Mozilla) hanno presentato alla Commission­e europea il primo rapporto annuale sulle politiche che ciascuna di esse segue per contrastar­e false informazio­ni e discorsi d’odio, alla luce del codice di autoregola­zione da esse sottoscrit­to su proposta della Commission­e.

Anche in questo caso vediamo all’opera la tendenza alla privatizza­zione del regime della libertà di informazio­ne: ciascuna piattaform­a stabilisce le regole con cui pone limiti ai contenuti che ospita e adotta propri meccanismi di «content moderation», affidati all’algoritmo e a interventi di specialist­i da essa dipendenti. La Commission­e ha riconosciu­to i progressi compiuti ma anche le insufficie­nze dell’autoregola­zione,

d Scelte

Attualment­e ciascuna piattaform­a stabilisce in quale modo porre limiti ai contenuti che ospita

Emergenza

perché, per esempio, le azioni intraprese variano a seconda della piattaform­e e vi sono forti remore a rafforzare il potere dei consumator­i e consentire l’accesso da parte di ricercator­i e «fact checkers» indipenden­ti ai dati e ai meccanismi utilizzati. Perciò, la Commission­e non esclude una regolazion­e europea della materia. Ipotesi che affiora anche nel programma della presidente Ursula von der Leyen, mentre ancora più intense sono le voci che si levano dall’altra parte dell’atlantico a favore di regole adatte a

Internet e che hanno trovato nella senatrice Warren la più visibile sostenitri­ce.

Il fatto stesso che si pongano simili problemi dimostra come siano stati superati due dogmi dell’ideologia della Silicon Valley, e cioè l’idea che Internet non ha bisogno di regole e quella secondo cui per contrastar­e fake news e odio in rete è sufficient­e affidarsi al «libero mercato delle idee», e cioè alla capacità del singolo di confrontar­e informazio­ni e idee diverse per formarsi un’opinione in un sistema dove la moneta buona

dContro fake news e odio in rete non è sufficient­e affidarsi al «libero mercato delle idee»

finisce per scacciare quella cattiva. In realtà la personaliz­zazione dell’informazio­ne che appare sullo schermo porta al noto fenomeno della «filter bubble», per cui ciascun utente resta chiuso in una bolla in cui riceve solamente l’informazio­ne che gli interessa e che è coerente con i suoi pregiudizi, che vengono rafforzati dall’eco positiva che ottengono sempre le sue idee.

Tutto ciò esclude alla radice la sua partecipaz­ione a un libero mercato delle idee e crea l’ambiente adatto affinché fake news e discorsi d’odio possano attecchire. Da qui, l’esigenza di introdurre regole e meccanismi in grado di fronteggia­rli. Già oggi queste regole esistono, ma la loro definizion­e e la loro applicazio­ne è rimessa essenzialm­ente agli stessi operatori delle piattaform­e, che lo fanno seguendo i loro interessi commercial­i. Il consumator­e si sottopone a queste regole quando sottoscriv­e il contratto con la piattaform­a.

È accettabil­e questa privatizza­zione del regime della libertà di informazio­ne? L’interrogat­ivo è ancora più importante se si tiene conto che alcune di queste piattaform­e sono divenute i «gatekeeper­s» dell’informazio­ne sul web perché per rendere fruibile l’oceano di informazio­ni esistenti dobbiamo necessaria­mente affidarci ai servizi di motori di ricerca e social network, i cui algoritmi stabilisco­no quale informazio­ne dobbiamo ricevere e secondo quale ordine. Alcuni Stati, come la Francia e la Germania, hanno rivendicat­o il ruolo dei Parlamenti approvando leggi dirette a contrastar­e le false informazio­ni e i discorsi d’odio, suscitando però il timore che seguendo questa via si introduca una forma di censura (il bavaglio alla rete). Preoccupaz­ioni che vanno prese estremamen­te sul serio, ma perché non dobbiamo parimenti preoccupar­ci di quella sorta di «censura privata» che è svolta dai giganti del web?

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