IL WEB HA BISOGNO DI REGOLE NON DI «CENSURA PRIVATA»
L’ ignobile campagna d’odio contro la senatrice Segre ha riproposto all’attenzione pubblica il tema di come contrastare il diffondersi di discorsi d’odio e false informazioni sul web. Per affrontare questo problema bisogna rispondere a un interrogativo preliminare: chi deve stabilire le regole sulla libertà di informazione in Internet? Tali regole devono essere decise autonomamente dalle società tecnologiche oppure c’è un ruolo che dovrà essere svolto dagli Stati?
Mark Zuckerberg ha annunciato che istituirà un Tribunale di appello al quale chiunque potrà rivolgersi per contestare le decisioni adottate da Facebook sui contenuti da lasciare e quelli da rimuovere dalla piattaforma. Un tribunale privato che eserciterebbe, secondo regole stabilite da un’impresa, la giurisdizione sui conflitti che riguardano la libertà di informazione nella rete.
Recentemente alcune società tecnologiche (Google, Facebook, Twitter, Microsoft, Mozilla) hanno presentato alla Commissione europea il primo rapporto annuale sulle politiche che ciascuna di esse segue per contrastare false informazioni e discorsi d’odio, alla luce del codice di autoregolazione da esse sottoscritto su proposta della Commissione.
Anche in questo caso vediamo all’opera la tendenza alla privatizzazione del regime della libertà di informazione: ciascuna piattaforma stabilisce le regole con cui pone limiti ai contenuti che ospita e adotta propri meccanismi di «content moderation», affidati all’algoritmo e a interventi di specialisti da essa dipendenti. La Commissione ha riconosciuto i progressi compiuti ma anche le insufficienze dell’autoregolazione,
d Scelte
Attualmente ciascuna piattaforma stabilisce in quale modo porre limiti ai contenuti che ospita
Emergenza
perché, per esempio, le azioni intraprese variano a seconda della piattaforme e vi sono forti remore a rafforzare il potere dei consumatori e consentire l’accesso da parte di ricercatori e «fact checkers» indipendenti ai dati e ai meccanismi utilizzati. Perciò, la Commissione non esclude una regolazione europea della materia. Ipotesi che affiora anche nel programma della presidente Ursula von der Leyen, mentre ancora più intense sono le voci che si levano dall’altra parte dell’atlantico a favore di regole adatte a
Internet e che hanno trovato nella senatrice Warren la più visibile sostenitrice.
Il fatto stesso che si pongano simili problemi dimostra come siano stati superati due dogmi dell’ideologia della Silicon Valley, e cioè l’idea che Internet non ha bisogno di regole e quella secondo cui per contrastare fake news e odio in rete è sufficiente affidarsi al «libero mercato delle idee», e cioè alla capacità del singolo di confrontare informazioni e idee diverse per formarsi un’opinione in un sistema dove la moneta buona
dContro fake news e odio in rete non è sufficiente affidarsi al «libero mercato delle idee»
finisce per scacciare quella cattiva. In realtà la personalizzazione dell’informazione che appare sullo schermo porta al noto fenomeno della «filter bubble», per cui ciascun utente resta chiuso in una bolla in cui riceve solamente l’informazione che gli interessa e che è coerente con i suoi pregiudizi, che vengono rafforzati dall’eco positiva che ottengono sempre le sue idee.
Tutto ciò esclude alla radice la sua partecipazione a un libero mercato delle idee e crea l’ambiente adatto affinché fake news e discorsi d’odio possano attecchire. Da qui, l’esigenza di introdurre regole e meccanismi in grado di fronteggiarli. Già oggi queste regole esistono, ma la loro definizione e la loro applicazione è rimessa essenzialmente agli stessi operatori delle piattaforme, che lo fanno seguendo i loro interessi commerciali. Il consumatore si sottopone a queste regole quando sottoscrive il contratto con la piattaforma.
È accettabile questa privatizzazione del regime della libertà di informazione? L’interrogativo è ancora più importante se si tiene conto che alcune di queste piattaforme sono divenute i «gatekeepers» dell’informazione sul web perché per rendere fruibile l’oceano di informazioni esistenti dobbiamo necessariamente affidarci ai servizi di motori di ricerca e social network, i cui algoritmi stabiliscono quale informazione dobbiamo ricevere e secondo quale ordine. Alcuni Stati, come la Francia e la Germania, hanno rivendicato il ruolo dei Parlamenti approvando leggi dirette a contrastare le false informazioni e i discorsi d’odio, suscitando però il timore che seguendo questa via si introduca una forma di censura (il bavaglio alla rete). Preoccupazioni che vanno prese estremamente sul serio, ma perché non dobbiamo parimenti preoccuparci di quella sorta di «censura privata» che è svolta dai giganti del web?