Così parlano gli illiberali
«L’epidemia sovranista» di Sergio Romano (Longanesi) traccia un quadro preoccupato delle nostre democrazie Mussolini twittava già nel 1919. I populisti attuali usano un linguaggio molto simile
Il 3 luglio del 1919 Benito Mussolini detta al «Popolo d’italia» un articolo dedicato a ciò che era il fascismo secondo lui: «È un movimento di realtà, di verità, di vita che aderisce alla vita. È pragmatista. Non ha apriorismi. Né finalità remote. Non promette i soliti paradisi dell’ideale. Lascia queste ciarlatanate alle tribù della tessera. Non presume di vivere sempre o molto. Vivrà fino a quando non avrà compiuto l’opera che si è prefissata».
All’epoca i caratteri si componevano a piombo, ma Mussolini sapeva twittare. La sua è la tipica retorica di un movimento nato in opposizione ai partiti per rovesciarne le liturgie e ridicolizzarne le locuzioni involute. Tutto ciò naturalmente accadeva poco prima che Mussolini si ubriacasse delle proprie liturgie e della sua retorica lunare. Questo del 1919 è un parlare destrutturato, a strappi, che si atteggia a flusso di coscienza di un presunto puro e di un impaziente di fronte alla corruzione e alla decadenza dilaganti. Mussolini un secolo fa parla la lingua dei social perché evidentemente non era la tecnologia a renderla così, ma un’ideologia in formazione.
Identificare il fascismo delle origini con il sovranismo di oggi sarebbe un po’ banale e molto superficiale. Di certo però quel fraseggio secco, liquidatorio, impermeabile alla costruzione sintattica e logica, lo abbiamo sentito spesso di recente. Ormai sembra quasi che chi non si esprime così abbia qualcosa da nascondere. Di certo è il linguaggio di una generazione di politici e sedicenti «giornalisti» che si sono affacciati sulla scena in questi anni.
Proprio l’analisi della retorica e dei suoi echi dal passato spicca fra le molte intuizioni che illuminano l’ultimo saggio di Sergio Romano L’epidemia sovranista. Origini, fondamenti e pericoli (Longanesi). Scrive l’editorialista del «Corriere»: «Donald Trump preferisce parlare per affermazioni brevi, spesso taglienti e sprezzanti. Così parlano del resto quasi tutti i sovranisti. Non è difficile comprenderne le ragioni — afferma Romano —. Vogliono distruggere buona parte di ciò che la democrazia liberal-socialista ha costruito (…) e come in tutte le controrivoluzioni devono usare un linguaggio rivoluzionario fatto di affermazioni categoriche, dogmi e precetti». E ancora: «Il linguaggio dei sovranisti vuole percuotere, sorprendere, apparire risoluto e tagliente. Il sovranismo non è fascismo, un’ideologia con radici storiche più complesse e drammatiche, ma sembra averne ereditato alcuni dei vezzi linguistici».
Bisogna sempre leggere Romano per la profondità storica con la quale ricostruisce il presente e la capacità di separare la sua opinione — molto sospettosa delle correnti illiberali — dalla dissezione dei fatti. Questi punti di forza sono presenti entrambi nell’epidemia sovranista e generano, fra gli altri, due lampi. Il primo è nella distinzione fra il nazionalismo del Novecento e il sovranismo di oggi: quello aveva sempre un nemico esterno, mentre il sovranismo «ha soprattutto nemici interni» e «la sua battaglia politica è una nuova lotta di classe» contro i rappresentanti di un sistema esistente. L’altra area sulla quale Sergio Romano getta un fascio di luce riguarda invece le correnti di simpatia per il sovranismo che attraversano la Chiesa cattolica in opposizione a Francesco e al suo papato riformatore.
Ma è lo sguardo storico nella lettura del presente la cifra di questo libro e un’assonanza con gli anni fra le due guerre riguarda sicuramente la percezione diffusa allora, come oggi, che la democrazia rappresentativa «fosse diventata sinonimo di declino morale». All’epoca la risposta fu la creazione di uno Stato etico e corporativo — «vale a dire illiberale», nota Romano — che conquistò anche alcuni intellettuali.
Ma poiché la democrazia rappresentativa torna a perdere prestigio in questi anni, l’autore mette a fuoco due ragioni che la portano a «navigare in acque torbide». Il primo è la difficoltà crescente di entrambi i principali sistemi elettorali a dare stabilità, equilibrio e piena rappresentatività all’azione del governo. Nel caso del maggioritario, Romano cita le considerazioni di Jeffrey Sachs di fronte a quei prodotti sconcertanti delle democrazie anglosassoni che sono Donald Trump e Boris Johnson: «Il maggioritario — riassume l’autore — favorisce la nascita di due partiti principali, una forte polarizzazione e la vittoria di una persona che si considera autorizzata a imporre il suo programma senza tener conto degli altri numerosi interessi esistenti in una società moderna».
D’altra parte l’esperienza dell’italia nella Prima Repubblica o del Belgio, che ha bisogno di 400 giorni per formare un governo, o della Spagna, al suo quarto voto in altrettanti anni, mostra i limiti del proporzionale: genera coalizioni basate su compromessi costosi o inefficaci ed è sempre meno adatto a riflettere la radicalizzazione generata dall’aumento delle diseguaglianze.
Romano aggiunge un ulteriore elemento: il costo crescente delle campagne elettorali, anche per le operazioni digitali più o meno coperte, sempre più difficile da sostenere con denaro pubblico o con i contributi dei militanti. Cresce così quello che l’autore definisce, senza alcuna simpatia e anzi molta preoccupazione, il fascino del «potere esercitato individualmente»: oltre a Trump e Boris Johnson, Viktor Orbán in Ungheria, Jair Bolsonaro in Brasile, Narendra Modi in India oltre ai «numerosi giovani leader, fra cui Matteo Salvini, che attendono impazienti di scalare i gradini del potere».
Per Romano la risposta è l’unione Europea, ma diversa da quella di oggi. Deve trovare la forza di mettere ai margini i sistemi illiberali e gli idolatri della sovranità nazionale emersi dal crepuscolo del socialismo reale. E presentarsi nella competizione internazionale come un insieme meno vasto, ma più compatto e integrato.
L’antidoto al nuovo nazionalismo è il rilancio dell’integrazione europea, che deve assumere presto uno slancio politico diverso