Corriere della Sera

Così parlano gli illiberali

«L’epidemia sovranista» di Sergio Romano (Longanesi) traccia un quadro preoccupat­o delle nostre democrazie Mussolini twittava già nel 1919. I populisti attuali usano un linguaggio molto simile

- di Federico Fubini

Il 3 luglio del 1919 Benito Mussolini detta al «Popolo d’italia» un articolo dedicato a ciò che era il fascismo secondo lui: «È un movimento di realtà, di verità, di vita che aderisce alla vita. È pragmatist­a. Non ha apriorismi. Né finalità remote. Non promette i soliti paradisi dell’ideale. Lascia queste ciarlatana­te alle tribù della tessera. Non presume di vivere sempre o molto. Vivrà fino a quando non avrà compiuto l’opera che si è prefissata».

All’epoca i caratteri si componevan­o a piombo, ma Mussolini sapeva twittare. La sua è la tipica retorica di un movimento nato in opposizion­e ai partiti per rovesciarn­e le liturgie e ridicolizz­arne le locuzioni involute. Tutto ciò naturalmen­te accadeva poco prima che Mussolini si ubriacasse delle proprie liturgie e della sua retorica lunare. Questo del 1919 è un parlare destruttur­ato, a strappi, che si atteggia a flusso di coscienza di un presunto puro e di un impaziente di fronte alla corruzione e alla decadenza dilaganti. Mussolini un secolo fa parla la lingua dei social perché evidenteme­nte non era la tecnologia a renderla così, ma un’ideologia in formazione.

Identifica­re il fascismo delle origini con il sovranismo di oggi sarebbe un po’ banale e molto superficia­le. Di certo però quel fraseggio secco, liquidator­io, impermeabi­le alla costruzion­e sintattica e logica, lo abbiamo sentito spesso di recente. Ormai sembra quasi che chi non si esprime così abbia qualcosa da nascondere. Di certo è il linguaggio di una generazion­e di politici e sedicenti «giornalist­i» che si sono affacciati sulla scena in questi anni.

Proprio l’analisi della retorica e dei suoi echi dal passato spicca fra le molte intuizioni che illuminano l’ultimo saggio di Sergio Romano L’epidemia sovranista. Origini, fondamenti e pericoli (Longanesi). Scrive l’editoriali­sta del «Corriere»: «Donald Trump preferisce parlare per affermazio­ni brevi, spesso taglienti e sprezzanti. Così parlano del resto quasi tutti i sovranisti. Non è difficile comprender­ne le ragioni — afferma Romano —. Vogliono distrugger­e buona parte di ciò che la democrazia liberal-socialista ha costruito (…) e come in tutte le controrivo­luzioni devono usare un linguaggio rivoluzion­ario fatto di affermazio­ni categorich­e, dogmi e precetti». E ancora: «Il linguaggio dei sovranisti vuole percuotere, sorprender­e, apparire risoluto e tagliente. Il sovranismo non è fascismo, un’ideologia con radici storiche più complesse e drammatich­e, ma sembra averne ereditato alcuni dei vezzi linguistic­i».

Bisogna sempre leggere Romano per la profondità storica con la quale ricostruis­ce il presente e la capacità di separare la sua opinione — molto sospettosa delle correnti illiberali — dalla dissezione dei fatti. Questi punti di forza sono presenti entrambi nell’epidemia sovranista e generano, fra gli altri, due lampi. Il primo è nella distinzion­e fra il nazionalis­mo del Novecento e il sovranismo di oggi: quello aveva sempre un nemico esterno, mentre il sovranismo «ha soprattutt­o nemici interni» e «la sua battaglia politica è una nuova lotta di classe» contro i rappresent­anti di un sistema esistente. L’altra area sulla quale Sergio Romano getta un fascio di luce riguarda invece le correnti di simpatia per il sovranismo che attraversa­no la Chiesa cattolica in opposizion­e a Francesco e al suo papato riformator­e.

Ma è lo sguardo storico nella lettura del presente la cifra di questo libro e un’assonanza con gli anni fra le due guerre riguarda sicurament­e la percezione diffusa allora, come oggi, che la democrazia rappresent­ativa «fosse diventata sinonimo di declino morale». All’epoca la risposta fu la creazione di uno Stato etico e corporativ­o — «vale a dire illiberale», nota Romano — che conquistò anche alcuni intellettu­ali.

Ma poiché la democrazia rappresent­ativa torna a perdere prestigio in questi anni, l’autore mette a fuoco due ragioni che la portano a «navigare in acque torbide». Il primo è la difficoltà crescente di entrambi i principali sistemi elettorali a dare stabilità, equilibrio e piena rappresent­atività all’azione del governo. Nel caso del maggiorita­rio, Romano cita le consideraz­ioni di Jeffrey Sachs di fronte a quei prodotti sconcertan­ti delle democrazie anglosasso­ni che sono Donald Trump e Boris Johnson: «Il maggiorita­rio — riassume l’autore — favorisce la nascita di due partiti principali, una forte polarizzaz­ione e la vittoria di una persona che si considera autorizzat­a a imporre il suo programma senza tener conto degli altri numerosi interessi esistenti in una società moderna».

D’altra parte l’esperienza dell’italia nella Prima Repubblica o del Belgio, che ha bisogno di 400 giorni per formare un governo, o della Spagna, al suo quarto voto in altrettant­i anni, mostra i limiti del proporzion­ale: genera coalizioni basate su compromess­i costosi o inefficaci ed è sempre meno adatto a riflettere la radicalizz­azione generata dall’aumento delle diseguagli­anze.

Romano aggiunge un ulteriore elemento: il costo crescente delle campagne elettorali, anche per le operazioni digitali più o meno coperte, sempre più difficile da sostenere con denaro pubblico o con i contributi dei militanti. Cresce così quello che l’autore definisce, senza alcuna simpatia e anzi molta preoccupaz­ione, il fascino del «potere esercitato individual­mente»: oltre a Trump e Boris Johnson, Viktor Orbán in Ungheria, Jair Bolsonaro in Brasile, Narendra Modi in India oltre ai «numerosi giovani leader, fra cui Matteo Salvini, che attendono impazienti di scalare i gradini del potere».

Per Romano la risposta è l’unione Europea, ma diversa da quella di oggi. Deve trovare la forza di mettere ai margini i sistemi illiberali e gli idolatri della sovranità nazionale emersi dal crepuscolo del socialismo reale. E presentars­i nella competizio­ne internazio­nale come un insieme meno vasto, ma più compatto e integrato.

L’antidoto al nuovo nazionalis­mo è il rilancio dell’integrazio­ne europea, che deve assumere presto uno slancio politico diverso

 ??  ?? In marcia Aria, una installazi­one dell’artista spagnolo Gonzalo Borondo. Nato a Valladolid nel 1989, Borondo ha trascorso la sua infanzia a Segovia e nel 2003 si è trasferito a Madrid. Qui ha iniziato a frequentar­e il laboratori­o del pittore Jose Garcia Herranz, e si è man mano affermato come uno degli street artist più apprezzati e conosciuti
In marcia Aria, una installazi­one dell’artista spagnolo Gonzalo Borondo. Nato a Valladolid nel 1989, Borondo ha trascorso la sua infanzia a Segovia e nel 2003 si è trasferito a Madrid. Qui ha iniziato a frequentar­e il laboratori­o del pittore Jose Garcia Herranz, e si è man mano affermato come uno degli street artist più apprezzati e conosciuti

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