Viaggio nella storia segnata dalle catastrofi
Reperti e opere di oggi. Osanna: un taglio scientifico
Preservate nei millenni dalle ceneri vulcaniche: due antiche città, con due catastrofi a segnare i destini di entrambe. Due città-simbolo, divenute oggi siti archeologici tra i più importanti e meglio conservati del pianeta: Akrotiri, l’attuale Santorini, nel Mar Egeo, sepolta da un’eruzione nel 1613 avanti Cristo. E Pompei, devastata dalla furia del Vesuvio nell’anno 79.
La sfida della mostra, allestita fino al 6 gennaio alle Scuderie del Quirinale, è quella di raccontarle insieme: Pompei e Santorini. L’eternità di un giorno, un’esposizione di taglio scientifico, ma al tempo stesso con un allestimento di grande impatto scenografico, costruita con circa trecento reperti archeologici e opere d’arte moderna e contemporanea da Arturo Martini a Damien Hirst, da Alberto Burri a Andy Warhol, da William Turner a Giuseppe Penone, da Medardo Rosso a Richard Long. Testimonianze diverse e diversamente in grado di raccontare come le catastrofi naturali e la riscoperta di città sepolte abbiano, nel corso dei secoli, nutrito l’immaginazione.
L’esposizione è curata da Massimo Osanna, direttore del Parco Archeologico di Pompei, e da Demetrios Athanasoulis, direttore dell’eforia delle Antichità delle Cicladi, con Luigi Gallo e Luana Toniolo. Un lavoro frutto di una collaborazione istituzionale tra Italia e Grecia, che ha portato a selezionare preziosi reperti in molti casi mai esposti prima al pubblico. «L’eforato delle Cicladi — ha spiegato Athanasoulis — ha deciso di mettere in atto una politica espositiva rivolta verso l’esterno con mostre sia in Grecia sia all’estero che hanno l’obiettivo di promuovere il patrimonio e di rendere l’antichità una fonte di cultura, ma anche intrattenimento di qualità. La mostra è espressione di questa visione, e portando per la prima volta fuori dalla Grecia i materiali provenienti da Akrotiri, permette al grande pubblico di conoscere il volto della “Pompei” dell’egeo preistorico».
«Abbiamo voluto affiancare all’indagine archeologica — ha aggiunto Osanna — anche la lettura geologica degli eventi vulcanici, così da poter far capire al pubblico l’unicità dello stato di conservazione delle due città».
Il risultato per il visitatore è un viaggio nel tempo lungo un arco cronologico di tremila e cinquecento anni, dall’età del bronzo ai nostri giorni. Un racconto per immagini costruito con statue, affreschi, vasi, rilievi, gemme, incunaboli, quadri, oggetti di uso quotidiano, ricostruzioni di ambienti e proiezioni video in grado di evocare, tutti insieme, storia e riscoperta delle due città accomunate da un’identica fine a distanza di mille e settecento anni.
Nel dettaglio, ciascuna opera proposta vale l’ammirazione del visitatore: da Akrotiri i cento esemplari di vasellame decorato e i dipinti parietali, tra cui le celebri raffigurazioni di giovani pescatori. Da Pompei i drammatici calchi dei corpi delle vittime (ispiratori del Bevitore di Arturo Martini), il servizio d’argento di Moregine, la cassaforte dalla Villa di Oplontis, i dipinti colorati della Casa del Bracciale d’oro, i bronzi, i mosaici, i vetri. Dal «presente» l’ottocentesco dipinto di Filippo Palizzi Fanciulla pensierosa negli scavi di Pompei, il Vesuvius pop di Warhol o la videoinstallazione di Francesco Jodice su Santorini, realizzata per l’occasione.
● Giuseppe Penone (1947) è uno dei maggiori rappresentanti del movimento dell’arte povera. Vive e lavora a Torino e fa uso di materiali per lo più di origine vegetale per creare un’interazione profonda tra uomo e natura. Le sue opere sono state esposte e si trovano nei più noti musei del mondo
Poe con Una discesa nel Maelström, immenso, perenne vortice marino che risucchia negli abissi un gruppo di pescatori».
Nella produzione contemporanea?
«Influenzata dal pensiero positivista americano, l’arte del dopoguerra sembra avere messo al bando la paura, nell’illusione che l’uomo potesse dominare il mondo fino a controllarlo. Pensiamo alla minimal art, arte cimiteriale, orizzontale, geometrica, governata da un’ossessione di precisione, di regolarità. L’esatto contrario della vita, che è arbitrio, imprevisto, caos».
La riscoperta di siti sepolti ha nutrito l’immaginario collettivo?
«Il mio, di certo. Penso soprattutto alla Grotta Chauvet nell’ardèche, in Francia, il più antico esempio di arte rupestre al mondo. Riscoperta nel 1994, è stata resa fruibile una decina di anni dopo grazie a una replica perfetta, capace di rendere tutta la meraviglia dell’uomo preistorico davanti al mistero, alla magia del mondo, che con mezzi rudimentali è riuscito a riprodurre».
Anche lei, in fondo, ha scelto spesso mezzi rudimentali: legno, corteccia, interi tronchi d’albero…
«L’albero per me è l’idea di scultura perfetta. E la materia con cui lavoro - creta, marmo, metalli - proviene sempre dalla natura, nel solco di una continuità con il passato che un materiale contemporaneo come la plastica, per esempio, non dà».
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