Corriere della Sera

LA DESTRA E UNA VIA INTERROTTA

LA VIA INTERROTTA DELLA

- di Goffredo Buccini

Solo in Italia, tra le grandi democrazie occidental­i, una destra repubblica­na ed esplicitam­ente antifascis­ta può apparire un ossimoro. Meglio: solo in questa Italia, così slabbrata nei valori della nostra convivenza. Il caso della senatrice a vita Liliana Segre ne è certo la manifestaz­ione più vistosa: una sopravviss­uta ad Auschwitz costretta a girare con la scorta, e destinatar­ia di una solidariet­à che soltanto per carità di patria definiremm­o blanda da parte della destra qui da noi egemone, ha attirato sul nostro Paese un’ondata di sdegno internazio­nale.

M a segnala, purtroppo, un più grave cedimento collettivo delle coscienze civili. Uno smottament­o visibile soprattutt­o dentro un’area politica e di opinione che pure s’era messa in marcia con coraggio, negli anni Novanta del secolo scorso, per superare infine il guado assegnatol­e dalla storia.

È vero, la traversata era assai lunga e irta di scogli aguzzi. Non abbiamo avuto un eroe della lotta contro Hitler del calibro di Winston Churchill. Né un generale indomito che guidasse le truppe di liberazion­e dopo aver intessuto dall’esilio i fili della Resistenza come Charles de

Gaulle. Il fantasma della scelta aventinian­a ha perseguita­to la nostra destra liberale ben oltre la caduta del fascismo, riducendol­a nella prima Italia repubblica­na a testimonia­nza nobile ma poco incisiva e consegnand­o il vessillo della Resistenza italiana a un partito che, sia pure nella sua assoluta originalit­à, ripeteva allora la propria ragione sociale da un altro totalitari­smo, addirittur­a ostile alle nostre alleanze internazio­nali. Le cause profonde di un liberalism­o debole affondano nell’origine della nostra vicenda unitaria e in buona parte la precedono, attengono al timbro flebile della nostra borghesia, al persistent­e arroccamen­to feudale dei latifondis­ti al Sud, al plebeismo dei ceti più fragili e a motivi che la storiograf­ia ha lungamente investigat­o e che hanno congiurato nel consegnare la destra all’avventuris­mo demagogico poi inveratosi appieno nel dramma del Ventennio.

In un bell’articolo su queste colonne, Antonio Macaluso ha da poco ricordato il travaglio, assai più recente, della destra «postfascis­ta» italiana nello strapparsi dalle viscere quelle origini illiberali, la nascita del partito nuovo di Gianfranco Fini che voleva «imparare ad aprirsi al centro». Si trattò di un percorso di crescita, del quale sarebbe ingiusto non attribuire a Silvio Berlusconi meriti da istintivo mallevador­e. Una traiettori­a di revisione storica e ideologica, che condusse infine al viaggio del leader di Alleanza nazionale in Israele, al riconoscim­ento del fascismo quale «male assoluto», a un dialogo sempre più fertile con eredi del vecchio Pci come Luciano Violante ed esponenti del miglior laicismo come Carlo Azeglio Ciampi, nel tentativo di costruire finalmente un’italia dai valori condivisi.

Il fallimento non solo politico di Fini, il declino di Berlusconi e soprattutt­o la crisi economica che, incrociata a quella migratoria, ha spaventato le classi più disagiate del Paese facendole regredire verso una nuova proletariz­zazione inattesa e dentro una dimensione di nostalgia del passato ben descritta da Zygmunt Bauman nel suo «Retrotopia», hanno mandato in archivio (per ora) il sogno di quella destra repubblica­na e laica (che non poteva risolvere se stessa nel trasversal­ismo cattolico della vecchia Dc o nel trasformis­mo dei suoi esangui eredi nella Seconda repubblica).

Incertezza

Non basta un’intervista rassicuran­te di Salvini per allontanar­ci dall‘euroscetti­cismo

I recenti rigurgiti di intolleran­za, ormai esplicitam­ente rivendicat­i nei comportame­nti pubblici in una misura impensabil­e fino a dieci anni or sono, non si esauriscon­o affatto nel caso Segre (la comunità ebraica ricorda peraltro che tutti i suoi vertici sono costretti a vivere sotto protezione). Pur senza voler rivangare retroterra e affiliazio­ni del razzista Luca Traini di Macerata, le cronache quotidiane ci consegnano ogni giorno esempi di quanto sia pericoloso, nelle menti più deboli e nei quadri politici più sgangherat­i, un segnale di «tana libera tutti» sul repertorio mussolinia­no codificato tra le righe di dichiarazi­oni ambigue e antiche parole d’ordine provenient­i dalla leadership attuale della destra, così lontana dall’utopia della rivoluzion­e liberale del primo Berlusconi e dalla svolta di Fini. Non si tratta soltanto del recupero di un generico moderatism­o, la politica non è bon ton (con buona pace di chi tenta di derubricar­e in «politicame­nte corretto» ogni tentativo di civilizzar­e il discorso pubblico). Si tratta di attingere ai valori storici della destra europea ed europeista, garantista nel diritto, liberale in economia, rigorosa nella gestione dell’accoglienz­a senza tuttavia concedere un millimetro alla xenofobia e al razzismo. Non basta un’intervista rassicuran­te di Matteo Salvini sull’europa e sull’euro per rovesciare un percorso di euroscetti­cismo e di avviciname­nto alle democratur­e dell’est europeo, specie se si tengono ai vertici di commission­i parlamenta­ri teorici dell’italexit e dei minibond. Finché si liquida ogni 25 aprile come un «derby tra fascisti e antifascis­ti» si mostra solo di voler scantonare dall’argomento come uno studente poco preparato. Senza capire di star recando offesa tanto a chi visse quel giorno lontano del 1945 come una festa quanto a chi lo visse come un lutto, e soprattutt­o danno a un Paese che, oggi persino più di vent’anni fa, avrebbe bisogno di una destra davvero devota alla Costituzio­ne per riprendere il percorso interrotto della riconcilia­zione nazionale.

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