AL VOTO (DI NUOVO) E POI?
Scenari Tensioni in Egitto, Libano, Iraq come in Cile, Ecuador, Spagna. E a Hong Kong. La democrazia resta ancora il sistema migliore per guardare al futuro?
«A vremo un Parlamento italiano senza italiani» disse nel dicembre 2015 Felipe González, l’unico leader della sinistra europea ad aver governato per 14 anni (quattro in più di Tony Blair) e tuttora la migliore testa politica del suo Paese. González prevedeva che la Spagna — abituata all’alternanza tra socialisti e popolari — sarebbe entrata in un’epoca di frammentazione e turbolenza, senza avere il know-how per cavarsela.
Oggi in Spagna si vota per la quarta volta in quattro anni; quindi González aveva ragione. Ma aveva anche torto, perché neppure noi italiani sappiamo più come fare: ci infatuiamo di leader di cui ci stanchiamo in fretta; e formiamo governi contro qualcuno, più che per qualcosa.
Non siamo i soli. Quasi tutte le democrazie europee non funzionano più. Non decidono. Non tengono il passo della società. Sono impotenti di fronte ai giganti della rete, che decidono al posto loro, influenzano i cittadini molto più dei partiti, e neanche pagano le tasse.
Il voto di oggi in Spagna non risolverà le cose; le complicherà ulteriormente. Il premier socialista Sanchez vincerà, ma non abbastanza, perché non avrà i seggi per governare. Il vero vincitore sarà Santiago Abascal, che ha riportato l’estrema destra in Parlamento. La Merkel, o quel che ne resta, tenterà di convincere i popolari ad astenersi per far lavorare Sánchez; ma a Pablo Casado — il giovane leader di un Pp in lenta ripresa — non conviene lasciare ad altri il monopolio dell’opposizione.
Non c’è giustizia in questo mondo, e nulla di nuovo in questa affermazione. La novità invece sta nell’indignazione popolare davanti all’ingiustizia, che è esplosa ovunque con tale rapidità e intensità da creare sollevamenti che non accennano a placarsi. Negli ultimi mesi, le contestazioni hanno attraversato un gran numero di Paesi, sia ricchi che poveri, e di ogni cifra politica, dalle democrazie consolidate fino ai regimi più repressivi.
Motivo della rabbia è la diffusa percezione che la politica continui ad agire sempre e comunque per gli interessi delle élite, scavalcando quelli del popolo. Nei Paesi in via di sviluppo si svolgono regolarmente manifestazioni di protesta, e per buoni motivi. Le popolazioni sono costrette a sopportare i disagi causati dall’incapacità dei governi a fornire i servizi più basilari, e la mancanza di istituzioni politiche avanzate significa che attori non tradizionali — in maggior parte gli stessi contestatori — tendono a far vacillare l’ago della bilancia.
Nelle ultime settimane, l’egitto ha visto sfilare per le strade le manifestazioni più imponenti dai giorni della Primavera araba, motivate dalle accuse di corruzione mosse contro il presidente Abdel Fattah al-sisi e i militari, e per di più esacerbate dalle riforme economiche che hanno da un lato ridotto i sussidi e dall’altro alzato le tasse per i più poveri del Paese. In Libano, una «tassa whatsapp» sulle comunicazioni online ha fatto scattare le proteste, che ben presto sono state scavalcate da ben più vaste rivendicazioni economiche e politiche, costringendo alla fine il primo ministro Saad Hariri a rassegnare le dimissioni. In Iraq, il presidente del Consiglio Adel Abdul Mahdi non se la passa molto meglio rispetto al premier libanese: il Paese è stato messo a ferro e fuoco per mano di cittadini esasperati per l’alto tasso di disoccupazione e per la pessima qualità delle infrastrutture e dei servizi.
In Ecuador, la decisione del presidente Lenin Moreno di azzerare i tradizionali sussidi per i carburanti ha segnato l’inizio di settimane di proteste su tutta una gamma di istanze sociali, che da ultimo l’hanno costretto a fare marcia
Globalizzazione Le contestazioni attraversano un gran numero di Paesi sia ricchi che poveri e di ogni cifra politica
indietro, un evento che è stato accolto come una vittoria dai manifestanti, ma che rappresenta in realtà una vera sconfitta per la disciplina fiscale del Paese.
Storicamente, le proteste si rivelano meno efficaci nei Paesi più ricchi, vuoi perché già in pugno alle lobby, vuoi perché le fasce di popolazione più influenti possono permettersi il lusso di aspettare la successiva tornata elettorale per affidare il proprio disappunto politico alle urne. Sempre più spesso, tuttavia, le cabine elettorali non sembrano più in grado di fungere da valvola di sfogo alle aspettative disattese dalla politica.
In Cile, l’innesco che ha dato fuoco ai disordini in uno dei Paesi più ricchi e stabili di tutta l’america Latina è stato l’aumento del 3 per cento del prezzo dei biglietti della metropolitana, varato da Sebastián Piñera. A quel punto la gente è affluita nelle piazze per manifestare anche contro le pensioni insufficienti e l’alto costo dei servizi di base, come la sanità e le utenze. I manifestanti hanno persino acceso fuochi in alcune strade. L’esasperazione degli animi ha toccato il culmine quando il governo ha fatto ricorso ai soldati in assetto antisommossa, in un Paese con una lunga storia di dittatura militare alle spalle come il Cile.
Un anno fa, i movimenti dei gilet gialli in Francia sono riusciti a paralizzare quasi completamente Parigi, e benché
Sfiducia Ovunque è diffusa la percezione che la politica continui ad agire sempre e comunque per gli interessi delle élite
l’ondata di proteste si sia già in larga misura esaurita, l’imminente riforma delle pensioni e il prossimo anniversario della rivolta rischiano di far nuovamente divampare il malcontento. In Spagna, la recente decisione della Corte suprema di comminare lunghe pene detentive ai leader catalani che avevano lanciato il referendum per l’indipendenza nel 2017 e avanzato la richiesta di secessione ha fatto scattare proteste massicce, che vanno a complicare le elezioni di questo fine settimana in quanto già si teme che dalle urne non emergerà un chiaro vincitore.
Nel frattempo, all’altro capo del mondo, le proteste proseguono senza tregua a Hong Kong per la ventiduesima settimana consecutiva, seminando lo scompiglio e lo sconcerto nei centri di potere di una delle principali economie globali. Di tutte le proteste oggi in atto, proprio quelle di Hong Kong sembrano rappresentare la minaccia minore al proprio governo e — indirettamente — a Pechino, il quale si concede il lusso di aspettare tranquillamente la fine delle contestazioni.
Di qui la domanda fondamentale: in questi giorni di diffuso malcontento e di frustrazione politica, la democrazia resta ancora la migliore forma di governo per guardare al futuro? Se la democrazia è fiorita in questi ultimi decenni, ciò è stato possibile grazie al progressivo contributo dei cittadini alla produttività economica (uno dei principali effetti secondari della globalizzazione), che ha agevolato e allargato la loro partecipazione ai processi politici. Ma oggi la globalizzazione è in ritirata e la tecnologia ha cominciato a sostituirsi alla manodopera e continuerà a farlo per molti anni a venire.
È una questione sulla quale dovremo continuare a interrogarci, benché sia ancora troppo presto per dire che i giorni migliori della democrazia sono ormai alle nostre spalle. E la globalizzazione ha fatto segnare successi troppo importanti per vederla condannata alla rottamazione senza appello. Eppure, quando si sommano tutti questi problemi strutturali a un’economia globale in fase di rallentamento, diventa ancor più difficile per i governi soddisfare le legittime richieste dei loro cittadini per i prossimi anni. Se c’è una cosa che unisce il mondo intero nel 2019, è la rabbia contro i governi: e questo dovrebbe far riflettere seriamente tanto i governi quanto i popoli, che oggi si sollevano per contestarli.