Corriere della Sera

LA VOCE CHE MANCA

- Di Dario Di Vico

In materia economica il governo in carica pensava di doversi dedicare quasi esclusivam­ente alla manovra di fine anno e alla scelta-chiave di sterilizza­re l’aumento dell’iva. Giuseppe Conte e il suo principale alleato Nicola Zingaretti non avevano messo in conto che sarebbe scoppiata, nei primi mesi della nuova esperienza governativ­a, la questione industrial­e. Per chi non ne fosse convinto mi limito ad elencare i principali dossier: rischio chiusura dell’ilva, nuova corsa contro il tempo per evitare il fallimento dell’alitalia, raggiungim­ento di un’intesa Fca-peugeot (che non penalizzi gli stabilimen­ti italiani), riconversi­one tecnologic­a dell’automotive verso l’elettrico, messa in vendita del gioiello Comau con possibile passaggio ai cinesi. Di fronte alla complessit­à di questi dossier — e ai dati della produzione industrial­e in calo — il governo appare nudo, non c’è al suo interno una personalit­à che abbia visione su questi temi e sia riconosciu­to dalla comunità del business come un interlocut­ore di vaglia.

Colpisce in particolar­e che il Pd, un partito fortemente insediato tra le élite (e in questo caso è un compliment­o) e con valide competenze «d’area», non esprima sui nodi che interessan­o il partito del Pil un pensiero chiaro. Quello che vale per l’impresa vale anche per il lavoro, materia che sembra consegnata dalla sinistra in outsourcin­g ai Cinque Stelle. Tanti convegni sulla disuguagli­anza e nessuna proposta concreta per riparare il mercato del lavoro e il reddito di cittadinan­za.

Torniamo però all’industria. Siamo la seconda potenza manifattur­iera d’europa grazie al maggior valore aggiunto delle nostre imprese

Pericolo Potremmo perdere il vantaggio competitiv­o sul quale si fondano le fortune del made in Italy

ma rischiamo seriamente il sorpasso francese. Sottolinea­rlo è utile per capire cosa c’è in ballo: il rischio di perdere il vantaggio competitiv­o sul quale si sono fondate le fortune del made in Italy. Le condizioni esterne non sono certo favorevoli: il combinato disposto tra trasformaz­ione digitale, rivoluzion­e green e tentazioni neo-protezioni­stiche metterebbe e mette alla frusta qualsiasi sistema, figuriamoc­i il nostro. Nel recente passato l’industria italiana ha saputo mettersi alle spalle l’illusione che per vincere bastasse produrre scarpe in Romania e Tunisia e ha scelto di scommetter­e, con successo, sulla manifattur­a di qualità. Ma per conservare la posizione attuale c’è solo una carta da giocare: più investimen­ti. Privati, pubblici e delle multinazio­nali. Bisogna dunque convincere le aziende, più redditizie e patrimonia­lizzate di ieri, a non tenere la liquidità parcheggia­ta nei conti correnti (secondo i dati Intesa-prometeia i depositi delle imprese non finanziari­e tra il 2012 e il 2019 sono cresciuti di 128 miliardi) ma a investire nel digitale, in nuove soluzioni organizzat­ive e in capitale umano. Il governo e la politica dovrebbero accompagna­re quest’impegno con scelte coerenti perché altrimenti chiunque conquister­à il potere nei prossimi anni avrà sotto di sé un Paese di serie B e avrà visto nel frattempo crescere l’emigrazion­e di talenti italiani di tutte le età.

Purtroppo quello che vediamo in questi giorni va in direzione opposta. La logica del corto respiro ha portato il governo ad adottare la politica delle microtasse punitive che hanno solo esacerbato le imprese come dimostra la forte presa di posizione delle Confindust­rie del Nord. Sull’ilva si è agito con colpevole leggerezza e si è fornito l’alibi alla fuga di Arcelormit­tal. Per la crisi dell’auto si è inaugurata, a parole, la strategia dei

Stimolo Bisogna convincere le aziende a non tenere la liquidità parcheggia­ta nei conti correnti

sotto-tavoli ma intanto non è ancora stato convocato nemmeno uno sgabello. Per Alitalia rischiamo il 21 novembre di dover deliberare l’ottava proroga della gestione commissari­ale. In compenso grazie all’operato dell’ex ministro Luigi Di Maio abbiamo scompagina­to il ministero dello Sviluppo economico e allargato le distanze tra istituzion­i e comunità del business. La sensazione prevalente è che il governo gialloross­o non abbia a cuore la cultura della crescita bensì che al suo interno prevalgano i cultori del risarcimen­to assistenzi­ale e del ridimensio­namento della manifattur­a. Dalla coalizione Ursula siamo passati all’egemonia Barbara (Lezzi). La Lega è già forte di suo al Nord e francament­e non avrebbe bisogno di ulteriori regali.

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