Aurelio Regina, ex guida di Confindustria Lazio
«A ciascuno la sua vocazione». Nella polemica sorta dopo l’accusa lanciata a Milano dal ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, di attrarre tutto senza restituire nulla al Paese, il Cavaliere del Lavoro, presidente di Sisal ed ex vicepresidente di Confindustria, Aurelio Regina, è convinto che debba essere il governo a tastare il polso al territorio e riconoscerne e valorizzarne le specifiche vocazioni. Facendo, quando occorre, i giusti bilanciamenti.
Regina, lei è stato presidente di Confindustria Lazio, Unindustria Roma e Fondazione Musica per Roma. Cosa manca a Roma per avere successo?
«Da tempo sono convinto che per lo sviluppo di un territorio serva la concomitanza di tre fattori: le risorse finanziarie adeguate alla visione strategica; una forte dotazione di senso civico e fiducia collettiva animata da un sistema coeso di classe dirigente; un governo locale capace di buone politiche. Ciascuno di questi elementi è necessario ma da solo nessuno è sufficiente».
Quindi?
«A Roma mancano le risorse. È inaccettabile che non ci sia uno stanziamento adeguato alla capitale d’italia. Tutte le altre capitali europee hanno un regime speciale che a Roma non è stato riconosciuto».
Ma non sarà soltanto un problema di risorse.
«No, a volte è un problema di visione di lungo periodo. Prendiamo le Olimpiadi: Roma era la città giusta per ospitarle. Sto parlando di quelle del 2020. Invece successe che il premier Mario Monti rinunciò alla candidatura in un periodo terribile per il Paese. Ci fu una competizione tra città ma nessuno ha messo mai in dubbio che Roma è fatta per ospitare le Olimpiadi: avrebbe vinto senz’altro. Un governo dovrebbe riconoscere le vocazioni e seguirle: che so, l’agenzia del Farmaco a Milano, quella dell’alimentazione a Parma e così via. Senza inutili contrapposizioni che fanno male al Paese».
E va bene, Roma ha le sue vocazioni. Poi però bisogna dimostrare di sapere organizzare.
«A Roma è stato possibile: i grandi eventi ci sono stati e hanno avuto successo. Purtroppo l’ultimo che mi ricordo è il Giubileo che è stato un grande momento di rilancio della città che ha trovato intorno a questo evento una visione comune di sviluppo. Se ci pensa, tutte le infrastrutture anche culturali della città risalgono a quel periodo».
Poi cosa è successo?
«È venuto meno, ormai da tempo, un progetto di sviluppo di lungo periodo, condiviso con i ceti dirigenti. A Milano i progetti sono stati adottati con continuità superando anche gli steccati politici di destra e sinistra. Nella Capitale invece si sono sovrapposte molte politiche a breve termine. Così hanno prevalso l’ottica clientelare della politica e il ritorno di breve periodo dell’imprenditoria».
Torniamo alle vocazioni. Quali sono quelle del Sud?
«In questi anni il Sud ha fatto grandi passi avanti nei poli museali che sono cresciuti più che nel resto d’italia. Ripeto: la natura economica dei territori va accompagnata non forzata. Solo così gli investimenti arrivano. In questo Milano ha espresso un modello».
In quest’ottica Taranto dovrebbe tenere l’ilva o pensare a un’altra vocazione?
«Il premio Nobel Joseph Stiglitz è convinto che dobbiamo lasciare perdere l’industria e passare ai servizi senza fare troppi drammi. Io non lo penso: in un Paese industriale come il nostro l’acciaio serve per la nostra autonomia. Qui non ne farei una questione relativa solo a Taranto ma di visione del Paese».