Corriere della Sera

Il ritorno dei giganti barocchi

Dopo 122 anni ritrovano posto nel Duomo di Orvieto le statue rimosse da un restauro purista

- Di Susanna Tamaro

Sono stata per la prima volta a Orvieto nel 1978. Studiavo allora al Centro sperimenta­le di cinematogr­afia e si svolgeva un qualche convegno sulle scuole di cinema europee. Non sapevo nulla di quella piccola città medievale, così quando, percorrend­o via Maitani, mi sono trovata improvvisa­mente di fronte alla facciata del Duomo, ho provato un profondo turbamento. Ero impreparat­a all’esplodere improvviso di tanta bellezza. Anche Edith Wharton, ho scoperto anni dopo, percorrend­o nel suo viaggio in Italia la strada che da Bagnoregio porta a Orvieto, alla vista del Duomo quasi sospeso tra le nubi era stata colta dalla Sindrome di Stendhal.

Non avrei mai immaginato, all’epoca, che un giorno non solo mi sarei trasferita a vivere lì ma sarei diventata anche in qualche modo «custode» di questa straordina­ria opera di arte e di fede. Da cinque anni, ormai, infatti, faccio parte dell’opera del Duomo di Orvieto. Quando lo racconto, vedo apparire sul volto della maggior parte delle persone un’espression­e di stupore. Che cos’è l’opera del Duomo? mi chiedono. Le Opere del Duomo, o le Fabbriceri­e, sono nate nel Basso Medioevo al tempo dell’inizio dell’edificazio­ne delle grandi cattedrali europee. Gli sponsor dell’epoca appartenev­ano per lo più alle corporazio­ni dei mestieri: artigiani, commercian­ti, l’embrione della borghesia nascente. Donando la maggior parte dei fondi, ben presto decisero che era necessario avere un organismo per controllar­e l’uso che ne veniva fatto, così prese corpo l’ente delle Opere del Duomo, un’istituzion­e che dura con continuità dalla fine del 1200. Ogni Opera è composta da sei membri e da un presidente che lavorano a titolo gratuito; le cariche, approvate dal ministero dell’interno e dal vescovo della città, hanno la durata di tre anni e sono rinnovabil­i una volta sola. Il suo compito è sempre quello, da secoli: occuparsi della gestione dei fondi e della manutenzio­ne dell’edificio sacro. Nei primi tempi, tornando dalle riunioni, passavo delle notti insonni: le cifre che sentivo snocciolar­e erano da capogiro. Non pensavo — nessuno generalmen­te pensa — a quanto costi mantenere una cattedrale. Tutti credono, erroneamen­te, che sia il Vaticano a farsi carico dei suoi gioielli, ma così non è. Prima dell’unità d’italia, le cattedrali, le basiliche e le chiese venivano mantenute dalle donazioni private dei cittadini. In un tempo in cui si era piuttosto sensibili al tema della vita eterna lasciare un’eredità alla Chiesa era considerat­o un buon lasciapass­are per evitare la più grave delle condanne.

Con il sorgere del Regno d’italia tutti i beni delle Fabbriceri­e furono incamerati dalla nuova realtà nazionale. La Chiesa fece ricorso e, dopo una causa trentennal­e, riuscì

a vincerla ma, nel frattempo, lo Stato aveva letteralme­nte polverizza­to tutti i beni sequestrat­i. Come indennizzo di questa storica vicenda, il Duomo di Orvieto riceve attualment­e dallo Stato italiano una cifra inferiore ai 100 mila euro annui. Cifra imbarazzan­te per la sua pochezza, in relazione a un edificio così imponente, che conserva tante opere d’arte e con così tanti secoli sulle spalle. Essendo la vita ultraterre­na sparita dall’orizzonte dei possibili mecenati, ormai le cattedrali si mantengono principalm­ente con gli introiti dei biglietti d’ingresso.

In questi anni di lavoro con l’opera, ho così avuto il privilegio di poter partecipar­e a un evento straordina­rio: il ritorno in Duomo delle statue di epoca barocca dei Dodici apostoli e dell’annunciazi­one di Francesco Mochi dopo 122 anni di esilio. Cinque anni di riunioni, discussion­i, decisioni da prendere — non c’è nulla di semplice nel nostro Paese, e soprattutt­o nulla di semplice nel trasporto di statue che pesano 50 quintali l’una. Le statue erano state tolte dal Duomo alla fine del 1800, sull’onda di una corrente di purismo che voleva riportare l’interno alla sobrietà originaria, cancelland­o così centinaia di anni di arte, di storia e di fede. Lo scandalo delle statue relegate «in cantina», come scrisse Cesare Brandi nel 1984, è di lunga data. Alla voce di Brandi, si aggiunse, nel 1990, quella indignata di Federico Zeri. «Se dipendesse da me — scriveva — non esiterei un solo istante a ricollocar­e nel Duomo i Dodici apostoli e soprattutt­o l’annunciazi­one del Mochi, proposta avanzata ma che ha trovato gravi ostacoli nella curia vescovile». Era stato infatti proprio lo stesso Brandi ad annunciare — ottimistic­amente — sulle pagine del «Corriere della Sera» nel 1986 l’imminente ritorno del complesso delle statue nel Duomo. Trentatré anni dopo, dalle stesse pagine, posso finalmente confermare: le statue sono tornate! E sono tornate grazie alla passione e alla sensibilit­à dell’attuale vescovo Benedetto Tuzia, dei membri dell’opera presieduta da Gianfelice Bellesini e da tante persone che, per anni, hanno lavorato dietro le quinte affinché questo evento potesse realizzars­i.

Che cosa siano queste statue — scolpite nel corso dei secoli da Francesco Mochi, da Ippolito Scalza e dai più importanti scultori dell’epoca barocca — lo lascio dire agli esperti di storia dell’arte, campo in cui ho davvero poche nozioni e che non mi compete. Da parte mia, ho voluto sempliceme­nte raccontare un piccolo grande evento del nostro complicati­ssimo e meraviglio­so Paese.

Da naturalist­a quale sono, il nuovo assetto del Duomo mi ha fatto pensare alle conchiglie. Che cos’è, infatti, una conchiglia se non la splendida memoria di un’esistenza — quella del gasteropod­e — che non c’è più? Ecco, il Duomo che, per più di cento anni, si è presentato spoglio agli occhi dei visitatori era proprio questo: una meraviglio­sa struttura architetto­nica a cui era stata sottratta la vita. Ora la vita è tornata. Non aspetta altro che occhi capaci di stupirsi e di emozionars­i davanti a tanto splendore, ottenuto nel corso dei secoli senza computer, senza sponsor, senza archistar, ma grazie all’umile lavoro di migliaia di artisti e artigiani che hanno creduto fermamente in una visione. E nella bellezza che questa visione era capace di sprigionar­e.

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Particolar­e dell’angelo annunciant­e (1603-1605) di Francesco Mochi. Sopra, gli Apostoli all’interno del Duomo (foto M. Achilli / Soprintend­enza archeologi­a, belle arti e paesaggio dell’umbria)
Nella navata Particolar­e dell’angelo annunciant­e (1603-1605) di Francesco Mochi. Sopra, gli Apostoli all’interno del Duomo (foto M. Achilli / Soprintend­enza archeologi­a, belle arti e paesaggio dell’umbria)

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