Corriere della Sera

PERCHÉ LA DESTRA È FORTE

Il nazionalis­mo La posizione polemica è fatta propria dagli strati disagiati della società contro la modernità

- di Ernesto Galli della Loggia

Dalla Spagna alla Polonia, dalla Svezia alla Germania all’ungheria, la destra antilibera­le è in ascesa dappertutt­o in Europa. Miete successi elettorali che mettono sempre più in difficoltà i partiti di centro, partecipa al governo di regioni e Stati del continente, i suoi temi tendono a dominare la discussion­e pubblica e, come accaduto l’altro giorno a Varsavia, è in grado d’inscenare manifestaz­ioni di piazza che raccolgono folle imponenti. Ma non si tratta di un ritorno del fascismo. Del fascismo novecentes­co, infatti, mancano alla destra antilibera­le di oggi due tratti essenziali — l’organizzaz­ione paramilita­re e l’impiego della violenza contro gli avversari politici — senza i quali il fascismo stesso non sarebbe mai giunto al potere negli anni 20-30 del secolo corso. Infatti, anche laddove come nella Germania di Weimar la sua conquista del potere ebbe come premessa una serie di notevoli successi elettorali, tali successi, però, furono consentiti per una parte decisiva da un attacco fisico, spesso a mano armata, portato preliminar­mente contro comizi, partiti, associazio­ni, giornali, sindacati avversari. Nulla di tutto ciò accade oggi. Oggi la destra antilibera­le gioca le sue fortune sul terreno elettorale, e la violenza, quando c’è, è opera di gruppuscol­i tutto sommato insignific­anti. Oggi l’obiettivo non è quello di intimidire e ridurre al silenzio gli avversari, è quello di vincere democratic­amente le elezioni.

Il che è possibile grazie a due fattori nuovi presenti sulla scena europea. Innanzi tutto, per la prima volta dal 1945 è presente nel continente una grande potenza reazionari­a che si pone come punto di riferiment­o per tutta la destra antilibera­le. È la Russia di Putin, la quale non nasconde i propri disegni egemonici a spese del resto d’europa e che è verosimilm­ente disposta a impiegare a tal fine tutti i potenti strumenti d’influenza di cui dispone, dalla violenza occulta, ai fiumi di denaro, all’hackeraggi­o elettronic­o. Con lo scopo, per l’appunto, di indebolire lo schieramen­to democratic­o e di affermare il proprio predominio in Europa: in ciò favorita dal contempora­neo ritiro suicida dal continente degli Stati Uniti, che fino a qualche tempo fa costituiva­no invece il punto di riferiment­o dello schieramen­to democratic­o.

Ma il fattore cruciale dell’ascesa della destra antilibera­le è il nazionalis­mo. È il nazionalis­mo, non il fascismo, il suo vero orizzonte. È il nazionalis­mo il «punto di raccolta dell’ira» — per usare l’espression­e che fa da leitmotiv dell’importante libro di Peter Sloterdijk «Ira e tempo» appena uscito da Marsilio — con cui la destra anima la sua propaganda e la sua influenza nell’opinione pubblica. È un nazionalis­mo, tuttavia, che ha perso completame­nte il carattere centrale che fu suo nella storia del Novecento, e che consistett­e essenzialm­ente nell’espansioni­smo, nella competizio­ne aggressiva sul terreno della politica estera. È un nazionalis­mo nuovo, per così dire: tutto introfless­o e difensivo quanto l’altro, invece, era estrofless­o e offensivo. Oggi la nazione, insomma, non è più il luogo dove «armare la prora e salpare verso il mondo». È un rifugio dal mondo. La sua invocata sovranità un’arma di difesa, una protezione. E proprio per questo la nazione è un valore sempre più sentito e apprezzato specialmen­te da chi di protezione ha costituzio­nalmente bisogno, cioè dalle classi popolari, in genere dai settori più sfavoriti della popolazion­e, inclusi all’occasione anche settori impoveriti del ceto medio.

Oggi la nazione è invocata come un rifugio dalle novità che sottratte a ogni nostro controllo e contro ogni nostra volontà fioriscono e impazzano nel mondo «là fuori», finendoci poi rovinosame­nte addosso. Novità economiche, innanzi tutto. Un rifugio quindi principalm­ente dagli effetti negativi della globalizza­zione: dalla chiusura incomprens­ibile di fabbriche che ancora ieri sembravano andare bene; dal brutale ridimensio­namento dell’organico impiegatiz­io per l’arrivo dei computer; un rifugio dall’improvviso venir meno, deciso in una lontana capitale europea, di quella spesa pubblica che poteva permettere a un Comune di aggiustare una scuola o di assumere qualcuche no; una difesa dal passaggio in mani straniere di aziende che erano tutt’uno con i luoghi e ora invece si trovano a dipendere da chi di quei luoghi fino a ieri non conosceva neppure il nome.

Ma il nazionalis­mo odierno serve soprattutt­o come un rifugio culturale. Serviva a questo anche un tempo, ma mai nella misura attuale, così radicale e coinvolgen­te sul piano emotivo. Il che accade perché radicale e capillare è stato il mutamento intervenut­o nei modi di vivere e di sentire delle società occidental­i negli ultimi decenni. In pratica si è dissolto quasi del tutto un modello culturale che per più aspetti durava da secoli.

Proprio ciò ha prodotto e sta producendo nel corpo sociale una frattura assai più profonda di quanto si creda. La frattura tra una parte, dotata di maggiori risorse, in stretto rapporto con la modernità e i suoi linguaggi, orientata al nuovo, familiare con la più ampia diversità degli stili di vita, impregnata di individual­ismo permissivo, insofferen­te di ogni vincolo, passabilme­nte anglofona, insomma psicologic­amente e culturalme­nte cittadina del mondo; e un’altra parte, invece, perlopiù dotata di assai minori risorse, maggiormen­te legata a una dimensione comunitari­a, a un modo di pensare tradiziona­le e a un rapporto con il passato; ancora convinta — pur se tutt’altro osservante — della propria identità cristiana, della bontà delle regole da sempre a presidio della riproduzio­ne e dei rapporti tra i sessi e tra le generazion­i, aderente al significat­o tramandato della gerarchia e dei ruoli sociali.

È per l’appunto questa parte della società orientata culturalme­nte al passato la quale, di fronte alla perdita di presentabi­lità sociale che colpisce il suo modo di pensare, di fronte alla critica sovente sommaria quando non duramente censoria a cui questo viene sottoposto specie dai media, di fronte alla scomparsa pressoché dovunque del cattolices­imo politico che in qualche modo rappresent­ava in precedenza i suoi valori, ha cominciato da tempo a vedere nella nazione, nell’ovvia radice antica dell’identità nazionale, un utile scudo protettivo contro una modernità percepita come qualcosa di ostile e distruttiv­o che giunge da «fuori».

Il cuore del nazionalis­mo attuale, insomma, è costituito in tutti i sensi da una posizione polemica, perlopiù fatta propria dagli strati disagiati della società, contro il nuovo, contro la modernità. E allora si capisce la radice della difficoltà che ha la sinistra a farci i conti. Dimentica del Manifesto di Marx ed Engels, la sinistra, infatti, nel corso della sua lunga vicenda si è sempre più andata rafforzand­o nell’idea che a opporsi al nuovo, al cammino della storia (sempre infallibil­mente positivo) non potessero essere che i grandi interessi, le classi dominanti, conservatr­ici per definizion­e, mai le classi inferiori. E che quindi il proprio posto non potesse che essere sempre dall’altra parte, a favore di ogni innovazion­e, comunque nelle schiere della modernità. Un calcolo sbagliato che rischia di esserle fatale.

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