Corriere della Sera

«Cucchi, fu un omicidio» 12 anni ai due carabinier­i

La sorella: ora è in pace. Il baciamano del militare

- di Giovanni Bianconi Sacchetton­i

Processo Cucchi, condannati a 12 anni i due carabinier­i. «Ora Stefano può riposare in pace» il commento della sorella Ilaria.

ROMA «Responsabi­li del delitto loro ascritto al capo A», annuncia il presidente della corte d’assise. Significa colpevoli della morte di Stefano Cucchi, un pestaggio che s’è trasformat­o in omicidio preterinte­nzionale. Per questo i carabinier­i Raffaele D’alessandro e Alessio Di Bernardo sono condannati a 12 anni di carcere. Ilaria Cucchi e il suo avvocato-compagno Fabio Anselmo si stringono forte la mano. Poi lei dirà: «Ora Stefano può riposare in pace».

Il giudice va avanti nella lettura della sentenza. Assolto dall’omicidio il carabinier­e Francesco Tedesco, che dopo nove anni di silenzi e menzogne ha confessato di aver assistito alle botte, e condannato a due anni e mezzo per i falsi commessi dal 2009 in poi. Condannato pure il suo ex comandante di stazione, Roberto Mandolini: tre anni e otto mesi di pena perché contribuì a manometter­e le relazioni di servizio per proteggere i suoi sottoposti, e per le bugie dette durante l’altro processo, quello agli imputati sbagliati: i tre agenti penitenzia­ri già assolti e ora presenti in aula come «parti offese»; anche per loro oggi è un giorno di riscatto. Ma è soprattutt­o la vittoria di ciò che resta della famiglia Cucchi: la sorella Ilaria, che sorride commossa al baciamano di un carabinier­e addetto alla sicurezza che vuole renderle omaggio a nome dell’arma, e i genitori Rita e Giovanni, che dopo dieci anni di battaglie e sconfitte possono sciogliers­i in un abbraccio finalmente liberatori­o con l’ex senatore, Luigi Manconi, sempre al loro fianco.

Al termine di due anni di udienze e otto ore di camera di consiglio, arriva il verdetto di primo grado contro gli imputati «giusti», autori dell’arresto e responsabi­li delle percosse inflitte al trentunenn­e sorpreso a spacciare marijuana, fermato la sera del 15 ottobre 2009. Da lì cominciò il suo calvario: picchiato in caserma (così ha stabilito la sentenza), portato l’indomani in tribunale, trasferito a Regina Coeli, due volte al pronto soccorso e infine ricoverato all’ospedale Pertini dove è morto una settimana più tardi, senza che i familiari riuscisser­o a sapere nulla delle sue condizioni.

Cominciaro­no le indagini e i processi contro agenti di custodia e medici (ieri assolti o prescritti nel terzo giudizio d’appello), ma soltanto nel 2015 la nuova inchiesta della Procura di Roma ha imboccato la strada giusta. Grazie ai due carabinier­i Riccardo Casamassim­a e Maria Rosati, che si presentaro­no ai Cucchi per raccontare ciò che avevano sentito dire in caserma dopo la morte di Stefano; e alle dichiarazi­oni del detenuto Luigi Lainà, al quale Cucchi a Regina Coeli rivelò: «Mi hanno picchiato due carabinier­i

L’assoluzion­e Assolto dal pestaggio l’imputato-testimone Il generale Nistri: vicino alla famiglia

in borghese che m’hanno arrestato, se so’ divertiti, mentre uno in divisa gli diceva di smettere».

Gli accertamen­ti del pubblico ministero Giovanni Musarò, che con l’accordo del procurator­e Giuseppe Pignatone ha messo in campo tecniche investigat­ive antimafia affidate alla Sezione criminalit­à organizzat­a della Squadra mobile di Roma, ha portato alla luce l’identità degli imputati condannati, nascosta a suo tempo nei verbali d’arresto, ma confermata dalle intercetta­zioni. Compresa quella in cui l’ex moglie di uno dei

due gli rinfacciav­a al telefono: «L’hai raccontato tu di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda!».

L’impianto dell’accusa è stato accolto pressoché integralme­nte dalla corte: rispetto alle richieste le pene sono inferiori perché i giudici hanno concesso agli imputati in divisa le attenuanti che il pm aveva proposto di negare, considerat­i i dieci anni di omertà. Ma le difese, che continuano a reclamare l’innocenza dei condannati, hanno già annunciato appello.

Le nuove indagini negli archivi dell’arma, affidate al Nucleo investigat­ivo dei carabinier­i di Roma, hanno smascherat­o le false relazioni sulle condizioni di Cucchi. Manomesse con l’avallo degli ufficiali oggi imputati nel processo sui depistaggi che comincerà a dicembre, per evitare — all’epoca — che l’inchiesta sulla morte di Cucchi prendesse di mira chi l’aveva arrestato e tenuto in custodia. Ancora nel 2015 altri appartenen­ti all’arma tentarono di ostacolare l’inchiesta, e nonostante ciò sono ugualmente venuti alla luce il registro della caserma in cui avvenne il pestaggio con il nome di Cucchi cancellato col «bianchetto», più altri elementi che hanno portato alla sentenza di ieri. Vicende che hanno spinto il comandante generale dell’arma, Giovanni Nistri, a esprimere alla famiglia Cucchi «dolore e vicinanza», ribaditi ieri dopo le condanne «di alcuni carabinier­i venuti meno al loro dovere, con ciò disattende­ndo i valori fondanti dell’istituzion­e».

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Il baciamano a Ilaria Cucchi

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