Corriere della Sera

Il progetto che serve (e che nessuno studia)

Le idee di un polo universita­rio e un terminal per le merci. L’appello a Piano e Baratta

- di Francesco Giavazzi

L’«aqua granda» di martedì è stata accompagna­ta da una liturgia di lamentele. Bisogna invece chiedersi perché, a mezzo secolo dall’alluvione del 1966, nulla sia cambiato.

Nel 1966 Indro Montanelli già denunciava su queste colonne l’incapacità della classe dirigente della città di affrontarn­e i problemi. Oggi, dopo aver speso oltre 6 miliardi di euro per costruire un’opera già in degrado sul fondo della laguna, la città è di nuovo sommersa da una marea di un metro e novanta.

Il sindaco Brugnaro dice che Venezia si sta giocando la sua «credibilit­à internazio­nale». Temo che sia già persa: le fotografie di navi lunghe anche 300 metri e oltre 30 di altezza, che imboccano il canale della Giudecca virando a poche decine di metri dalla basilica di San Marco, l’hanno già compromess­a. Ma non sono le lamentele che salveranno Venezia.

Venezia ha bisogno di un progetto, senza il quale non avrà un futuro. La pressione del turismo, una lebbra che ha espulso dalla città d’acqua i suoi abitanti, non si arginerà senza un progetto forte, che può essere complement­are, non alternativ­o al turismo. Qualche tentativo c’è stato, tutti naufragati. Paolo Costa, l’ex-presidente del porto, voleva costruire di fronte a Venezia, in mezzo all’adriatico, un terminal per le merci che arrivano in Europa dall’oriente, con un retroterra di servizi che si sarebbe esteso a buona parte del Veneto orientale. Un progetto che io stesso in passato ho criticato perché rischiava di essere troppo invasivo per una città così fragile, ma comunque un progetto forte. L’ex-rettore di Cà Foscari, Carlo Carraro, voleva trasformar­e la città, o almeno alcuni suoi sestieri, in un campus universita­rio, popolato di studenti e ricercator­i, un unicum al mondo. In fondo anche il Mose avrebbe potuto essere un tale progetto. In un mondo in cui la difesa delle città dall’innalzamen­to dei mari è diventata una priorità comune a tanti Paesi, il Mose avrebbe potuto essere il prototipo. Invece giace abbandonat­o in fondo al mare sconfitto dalla burocrazia e dalla corruzione. Il solo che è riuscito a portare a compimento con successo il suo progetto è Paolo Baratta: la sua Biennale è l’unica realizzazi­one «veneziana» di cui esser orgogliosi in tutto il mondo.

I privati da soli non sono in grado di elaborare un tale progetto: troppo divergenti sono gli orizzonti temporali che separano attività a costo zero e rendimento immediato elevato, come servire 30 milioni di turisti, da attività a rendimento differito, come un porto o l’università. Progettare il futuro è il compito della politica. Ma a Venezia la politica è morta, prova ne sia il fatto che né il Pd né la Lega oggi hanno un candidato da opporre al sindaco Brugnaro che fra nove mesi verrà rieletto per assenza di contendent­i.

Può lo Stato italiano abbandonar­e Venezia? Non si tratta di soldi, ne sono stati distribuit­i fin troppi, ma di idee. Forse il nostro punto di riferiment­o, il Quirinale, se non fosse quotidiana­mente impegnato a tenere insieme un Paese diviso e sconquassa­to, potrebbe chiedere a persone come ad esempio Renzo Piano e Paolo Baratta di rifletterc­i.

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L’intervento pubblico Serve lo Stato, i privati da soli non bastano, hanno un orizzonte temporale più breve

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(Afp) Passerelle Turisti in cammino sulle passerelle sopra l’acqua alta in Piazza San Marco

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