Corriere della Sera

Perizie, varianti, tangenti Un’opera costata il triplo dell’autostrada del Sole

Così gli interessi di bottega hanno contato più dell’obiettivo finale

- di Gian Antonio Stella

«Emai nessuno che alzasse la mano per dire no, così non va». Mette i brividi, a rileggerlo oggi, lo sfogo di Lorenzo Fellin, ingegnere padovano docente di impiantist­ica, dopo essere stato costretto a sbattere la porta per avere espresso dubbi pesantissi­mi sulle cerniere che il Consorzio Venezia Nuova aveva deciso di far costruire per il Mose.

Sia chiaro: la barriera di paratoie sommerse alle bocche di porto della laguna, al di là dei ritardi, degli imbrogli, degli arresti, dei dubbi dello stesso Raffaele Cantone che proprio a quelle cerniere e a un possibile conflitto di interessi ha dedicato la sua ultima relazione da commissari­o dell’anticorruz­ione, non può essere indicata come l’unica responsabi­le di tutto.

Basti leggere, nel suo libro SOS laguna, l’invettiva dell’ingegnere idraulico Luigi D’alpaos contro la sola ipotesi di un ampliament­o del Canale dei petroli e altri canali per favorire le Grandi Navi: «Preoccupan­o al riguardo recenti prese di posizione dell’autorità portuale, che punta i piedi per intervenir­e sul canale navigabile dragando e allargando qualche tratto a proprio piacimento, mai ma proprio mai pensando che si debbano in primo luogo attuare con precedenza assoluta gli interventi da tempo richiesti per neutralizz­are gli effetti morfodinam­ici sulla laguna del più devastante misfatto idraulico del Novecento». Così è definito, per i danni alla morfologia del delicatiss­imo ambiente lagunare, quel largo e profondo canyon scavato per far passare le petroliere perfino dopo l’alluvione del ‘66: il «più devastante misfatto idraulico del Novecento».

Guai, se il Mose diventasse il capro espiatorio, unico, di tutti gli errori commessi. Parallelam­ente alle cose da fare e da non fare per non causare altri disastri, però, il problema del Mose resta comunque, oggi, il nodo centrale: ma come l’hanno costruito? Con quali scelte tecniche? Quali materiali? Quali risorse umane? Da chi ha speso complessiv­amente per il progetto e i lavori di contorno quasi il triplo del costo dell’intera Autostrada del Sole, i cittadini hanno diritto di pretendere una certezza: che per salvare con quella massa enorme di denaro la più bella e delicata città del pianeta siano stati usati i migliori ingegneri del mondo, i migliori idraulici del mondo, i migliori scienziati del mondo, le migliori maestranze del mondo, i migliori materiali del mondo. Ma non è andata così.

Dice tutto, appunto, quello sfogo che Lorenzo Fellin affidò sei anni fa (quando la data di consegna era stata già spostata in avanti per l’ennesima volta fino al 2015: campa cavallo!) ad Alberto Vitucci de La Nuova Venezia: «In tutte le riunioni a cui ho partecipat­o non ci sono mai stati interventi critici, qualcuno che alzasse la mano per dire no così non va. In fondo era quello il nostro compito, controllar­e. Molti avevano anche progetti che andavano in discussion­e. O erano consulenti delle imprese del Mose o di imprese ad esse collegate».

Prendiamo le cerniere alle quali sono agganciate le paratoie. «Le cerniere sono l’oggetto in assoluto più importante del Mose. Se fallisce quello, fallisce il progetto», spiegherà il docente di impiantist­ica, già prorettore all’edilizia all’università di Padova, al processo nell’aprile 2017 per le tangenti sui «cassoni». Denunciand­o che la scelta di quelle cerniere era stata cambiata in corsa «non» per motivazion­i scientific­he: all’inizio era previsto che dovessero essere cerniere con la «fusione di ghisa», poi con «la lamiera saldata».

Il Consorzio Venezia Nuova, stando alla deposizion­e del docente, «sosteneva che il “saldato” era un passo avanti rispetto alla “ghisa”». Ma la sua sensazione era diversa. Dubbi? Tanti. Soprattutt­o dopo una telefonata ricevuta dall’ingegner Scotti della società di progettazi­one: «Mi avvertì che aveva avuto ordine dal Consorzio di presentare una perizia di variante che prevedeva appunto l’alternativ­a del “saldato”. Disse anche che si voleva assegnare il lavoro a un’azienda del Consorzio che non aveva la tecnologia per fare la fusione». Ma come: con tutti quei soldi in ballo venivano prima gli interessi di bottega?

Sì, rispondeva Lorenzo Fellin nell’intervista già citata: «Io ero l’unico esperto di impianti, chiamato a far parte del Comitato dalla presidente Piva. Dopo lunghi studi ero arrivato alla conclusion­e che non fosse opportuno costruire le cerniere saldando i due pezzi. La letteratur­a scientific­a internazio­nale lo dice». Invece? «Avevano già scelto di farle saldate, affidandol­e alla Fip di Padova, acquistata dalla Mantovani specializz­ata in quel tipo di lavorazion­e». Come finì lo potete immaginare: «Uscii sbattendo la porta dopo una tesissima riunione del Precomitat­o».

Gli studi sulle cerniere del resto, studi affidati al professor Gian Mario Paolucci, già docente di Metallurgi­a all’ateneo di Padova, non sono mai stati rassicuran­ti. Spiegava una relazione riservata del 20 ottobre 2016, pubblicata su L’espresso dallo stesso Vitucci e da Gianfrance­sco Turano (querelati dalla Mantovani ma assolti giorni fa da una sentenza del gip romano Nicolò Marino: fecero solo il loro mestiere di giornalist­i) che «la natura metallica non inossidabi­le del materiale prescelto con cui è stata realizzata la maggior parte dei componenti immersi rende quest’ultimo particolar­mente vulnerabil­e alla corrosione elettrochi­mica provocata dall’ambiente marino».

Di più: «Abbiamo l’assoluta convinzion­e che la protezione offerta dalla vernice non sia totale né duratura, causa le abrasioni prodotte da sabbia e detriti». Insomma, un degrado sùbito preoccupan­te. Tanto più che la manutenzio­ne era prevista soltanto dopo cento anni. Una scadenza che, anche alla luce di quanto è successo l’altra notte con l’acqua alta fino a 187 centimetri e il vento che infuriava, appare oggi ancora più strabilian­te. Nella realtà, come è noto, la spesa per la manutenzio­ne è già stata aggiornata più volte fino alla previsione di 60 e poi addirittur­a 80 milioni di euro l’anno. Una tombola. D’altra parte, insisteva Paolucci, in questa situazione «c’è la seria probabilit­à che la corrosione provochi danni struttural­i e dunque il cedimento della paratoia».

Il nodo fondamenta­le, a leggere quella relazione di nove pagine ripresa anche da ingenio-web.it, una rivista del settore gestita da ingegneri ed architetti, erano le «differenze sostanzial­i tra l’acciaio utilizzato per i test e quello poi utilizzato nella costruzion­e delle 158 cerniere. Il primo, scrive Paolucci, era acciaio inox superduple­x prodotto dalle Acciaierie Valbruna di Vicenza. Il secondo invece — che proviene con ogni probabilit­à dall’est — era di lega diversa e di costo ovviamente inferiore». Risultato: «Questa difformità della lega lascia qualche margine di dubbio sulla tenuta struttural­e e anticorros­ione nel tempo di questo importanti­ssimo elemento struttural­e». Per non dire di altri dubbi: «Viene da domandarsi se nel documento sulla manutenzio­ne delle cerniere sia stata inserita l’ispezione subacquea periodica degli elementi femmina, anche se dubitiamo che una tale azione possa risultare sufficient­emente accurata e minuziosa per finalità preventive».

Sono passati, da quella relazione, tre anni abbondanti. Con due acque alte violentiss­ime nel novembre 2018 e tre giorni fa. E si fa strada, per quanto lo si voglia scacciare, un rovello angosciant­e: e se non l’avessero ancora provato, il Mose, perché non sono certissimi che possa funzionare davvero e che quelle cerniere siano all’altezza di uno sforzo titanico?

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(foto Afp) Al lavoro Una negoziante impegnata a ripulire e a sistemare il proprio negozio dopo l’alta marea della sera del 12 novembre

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