QUEL RAZZISMO CHE FERISCE LE PERSONE CON DISABILITÀ
Caro direttore, a chi mi legge sia chiaro che io considero le leggi razziali e i troppi silenzi complici, allora come adesso, il peggior delitto dell’umanità e che da quando ho memoria mi batto contro ogni forma di razzismo, discriminazione e pregiudizio. Forse per me è stato semplice perché proprio io sin da bambino sono stato vittima di quel razzismo che non mi ha voluto tra i banchi di scuola perché per la mia disabilità «avrei spaventato gli altri bambini», proprio io che quando mia madre mi portava in giro in carrozzina e incontravamo una donna incinta, questa si girava per scongiurare che il bambino che portava in grembo potesse essere contagiato dalla mia diversità.
Ed è proprio perché razzismo è un termine per me di importanza capitale e non può essere in ogni caso confuso o strumentalizzato che intervengo. Intanto considero fuori luogo il clamore che ha suscitato l’accostamento del calcio al razzismo. Si può parlare di parole violente, ignoranti e imbecilli, singole o di gruppo o di ululati disumani ma spesso nulla hanno a che vedere con il razzismo. Basta che un campione di colore, di diversa etnia faccia parte della nostra squadra del cuore per dimenticare qualsiasi tipo di ingiuria legata presumibilmente al colore della pelle. Gli insulti, i latrati, i gestacci spesso durano il tempo di un match, trasportati dalla passione distolta e inaccettabile di un tifo a volte troppo passionale e forse in balia troppo spesso di quei gruppi organizzati di delinquenti che possono utilizzare i cori come ricatto nei confronti delle società.
Nulla di istintivo ma tutto mero calcolo. È necessario punire questi vili cori senz’altro, sì e con durezza, ma non parliamo di razzismo.
In questi giorni si è parlato tanto di razzismo per l’istituzione della Commissione voluta dalla senatrice Segre, donna alla quale va tutta la mia stima e ammirazione. La commissione prevista, a mio avviso, offre ad alcune parti politiche il «privilegio» di demonizzare gli altri. Chi darà il metro di misura per giudicare razzista o meno un comportamento? In un periodo di forti contrapposizioni partitiche dove i termini sovranismo e patriottismo o la voglia di difendere i confini dai nuovi mercanti di schiavi caratterizzano tanti movimenti politici, dove sarà il confine che dividerà una ideologia «sana» da una patologica?
Se lo chiede chi come primo ministro della Famiglia della storia di questa Repubblica venne tacciato lui stesso di fascismo perché difensore di un’istituzione «retrograda» come quella della famiglia tradizionale.
A mio avviso, e lo dico ad altissima voce, in questo momento è soprattutto una «categoria» di persone a soffrire di razzismo da parte della maggior parte della società e soprattutto dei politici. È «l’altra gente», le persone disabili a soffrire di un profondo e generalizzato atteggiamento razzista più o meno consapevole di chi divide i sani dai diversi. Non è razzista forse parcheggiare su uno scivolo e impedire la serena circolazione di una persona disabile? Non lo è non aggiornare il nomenclatore tariffario? Non lo è forse una manovra finanziaria che sta nascendo ora al Senato che prevede dei fondi di solidarietà che garantirebbero 54 centesimi al giorno per persona disabile?
Più in generale vediamo che le leggi che lo Stato si è dato, quando vengono applicate alle persone con disabilità tendono a essere meno rigorose e dalle maglie più larghe quasi a sancire «leggi più deboli per persone più deboli».
E cosa dire infine dell’olocausto a cui vengono condannati gran parte dei nascituri con disabilità genetica o sindromi di Down? Spesso si sceglie la cultura della morte, dell’aborto pur di non intraprendere la strada più complicata e scomoda della conoscenza del diverso. Quante volte si sente sostenere la possibilità di mettere fine a una vita nascente come una libertà e non una sconfitta? In fondo, il razzismo non è questo?