Corriere della Sera

GLI ERRORI STRATEGICI

ERRORI

- di Antonio Polito

Si sa che i buchi neri sono il risultato del collasso di una stella. Campi gravitazio­nali così intensi, così profondi, da non lasciare uscire più nemmeno la luce. Figuriamoc­i quando a collassare sono non una, ma cinque stelle. Dalle elezioni del 2018 in poi il buco nero della politica italiana si è creato nell’immenso spazio elettorale che aveva coperto il movimento fondato da Grillo. Prima la sua crisi ha causato il fallimento del tentativo di governo «populista» con la Lega: non hanno retto la competizio­ne, Salvini volava troppo e loro precipitav­ano troppo, e di conseguenz­a non ha retto il Conte 1. Ora la crisi del Movimento, venuta definitiva­mente alla luce con la clamorosa bocciatura su Rousseau dell’intero gruppo dirigente, sta determinan­do l’impasse del Conte 2, e può portarlo rapidament­e alla dissoluzio­ne.

La manifestaz­ione più evidente della débâcle strategica del M5S sta nella contraddiz­ione radicale tra come si presentaro­no agli elettori appena un anno e mezzo fa e come si descrivono adesso. Un movimento nato contro tutto e tutti, basato cioè sul proposito di mandare a casa tutti gli altri, oggi appare pronto a stare con tutto e tutti, convinto di essere l’ago della bilancia, una sorta di nuova Dc senza la cultura e il collateral­ismo del cattolices­imo democratic­o, che si dichiara perciò destinato al governo per molti anni a venire.

L’ ideologia del M5S, per usare un’espression­e coniata da Jean Luc Mélenchon, era più o meno una forma di «degagisme», neologismo preso dagli slogan della prima primavera araba, la rivoluzion­e dei gelsomini in Tunisia. Viene dal francese «degage», vattene, sparisci, levati di mezzo; o, nella versione nostrana, vaffa... «Buttare fuori» era il suo programma politico, «sortez les sortants», come il movimento poujadista francese degli anni 50 (lo ha notato Yves Mény, studioso del populismo). Ma, come d’incanto, «buttare fuori» è diventato «stare dentro». Tentando di piegare i propri contenuti, incompatib­ili con il governo di una grande potenza industrial­e come ancora è l’italia, all’obiettivo di stare al governo, destra o sinistra, Franza o Spagna, Toninelli o Patuanelli.

Ne sono derivate contorsion­i oggettivam­ente impossibil­i da digerire per gli stessi militanti. Si può chiedere a poche migliaia di persone che concepisco­no la democrazia come una forma di agorà, di autogovern­o, nella quale uno vale uno: scusate, per favore dobbiamo momentanea­mente sospendere la partecipaz­ione alle elezioni, bisogna che prima ci riuniamo un po’ a riflettere e capire chi siamo, qual è la nostra identità? Non si può. E poiché, come recita la legge di Murphy, quando una cosa può andare storta va storta, è andata storta la votazione su Rousseau, e ora sono guai seri per il Pd e per il governo con il Pd. Perché in Emilia Bonaccini stava già scalando l’everest, e ora gli hanno tolto la bombola di ossigeno, e chissà se ce la farà più a evitare una disfatta che sommergere­bbe come una slavina il Partito democratic­o.

Inoltre, al cambio di strategia in senso governista non ha però corrispost­o la duttilità tattica necessaria. Hanno scelto di accettare i compromess­i pur di durare, ma vogliono continuare ad apparire duri e puri. Così compiono errori marchiani. Perché si è sperimenta­ta l’alleanza con il Pd in Umbria, dove la partita era già persa, sapendo che se la si perdeva lì poi non si sarebbe potuta sperimenta­re in Emilia, dove invece la partita era tutt’altro che persa e politicame­nte contava molto di più? Perché dopo la sconfitta in Umbria Di Maio ha frettolosa­mente chiuso la porta a future alleanze regionali con il Pd pur di dare a intendere che non era stata colpa sua? In questo modo non gli è rimasto altro che tentare la strada della desistenza in Emilia, dove una vittoria leghista può costare il governo, finendo con lo scrivere un quesito sulla piattaform­a Rousseau che rischia di passare alla storia come il più lungo biglietto di suicidio politico mai concepito. Tutto ciò lasciando da parte le cose serie, tipo l’incredibil­e storia dello scudo penale per Arcelormit­tal, tolto, messo, tolto, che il presidente del Consiglio non può ripristina­re perché una frangia dei Cinquestel­le non lo vuole e minaccia la crisi.

In questo, e in molti altri modi, il M5S si sta giocando anche l’ultima carta che gli era rimasta dopo il fallimento della diarchia Di Maio-salvini, e cioè la promozione a vero leader di Giuseppe Conte. Solo un effettivo potere di guida e di indirizzo del primo ministro avrebbe potuto governare anche il caos interno al Movimento, e questo spiega perché Zingaretti, Franceschi­ni e tutto il Pd abbiano abbracciat­o Conte come dei naufraghi una scialuppa. Ma la metamorfos­i di San Giuseppe non è accaduta, o non è ancora accaduta, e chissà se è rimasto il tempo perché accada.

Dovrebbe essere chiaro ai Cinquestel­le che uscire sconfitti anche al secondo tentativo di governo, prima con la Lega e ora con il Pd, può rappresent­are la tomba elettorale del Movimento, e che neanche un cambio in corsa del leader farebbe i miracoli. Ma, a questo punto, c’è da chiedersi se sia davvero chiaro; o se invece un «cupio dissolvi» si sia impadronit­o dei vincitori delle elezioni, indecisi a tutto, disposti a far pagare il prezzo delle loro contraddiz­ioni al Paese che li ha votati.

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