Il neorealismo non lo sapeva ma ha condannato il merito
Il dibattito sulla meritocrazia ha un vizio cognitivo di fondo: chi esige meritocrazia pensa spesso di meritare più degli altri. Paradosso risolvibile tornando all’origine del neologismo di Michael Young che in L’avvento della meritocrazia (1958) immaginava un regime dove la classe dominante usava presunti parametri meritocratici per conservarsi al potere. Il problema di oggi forse non è la mancanza di meritocrazia ma il trionfo dell’immeritocrazia. Chi ha pochi meriti è preferito: è più controllabile, meno minaccioso. Al competente si preferisce il non competente e l’ignoranza spopola. «Un tempo la cultura era un valore. Chi sapeva di non possederla ambita a conquistarla. E chi l’aveva la ostentava come un titolo di vanto. Oggi è esattamente l’opposto. Da valore è diventata un disvalore». Inizia così il saggio di Gianni Canova, Ignorantocrazia (Bompiani, collana Agone diretta da Antonio Scurati).
Canova, critico cinematografico e rettore dell’università Iulm di Milano (chi scrive vi collabora), ricorda che insegnare è lasciare un segno negli studenti, non solo esaminarli, fare ricerca è scoprirsi, non pubblicare e basta. La competenza è un valore dinamico, non statico: il competente è colui che rischia ciò che sa per aumentare la sua conoscenza, ora con agli altri, ora contro gli altri, perché il competente deve anche competere con gli altri. Non è necessario vincere, ma non basta partecipare. Gli avversari? Vanno scelti forti.
Canova, decostruendo il culto italiano della realtà come verità assoluta, non se la prende con i nipotini bulli o radical chic, cioè i reality e i docufilm da festival, ma sconfessa il grande padre nobile: il neorealismo. È lì che nasce il canone che finge di disdegnare la finzione a favore di una presunta oggettività: ma «come i concorrenti del Grande Fratello, anche i personaggi di Rosi vivono davanti a una telecamera sapendo di essere ripresi». Il format tv ha avuto molto pubblico e poca sostanza, il secondo molta gloria (GRA ha vinto il Leone d’oro) e poco pubblico. I figli del neorealismo, gli intellettuali progressisti, hanno fatto libri e film sul popolo, non per il popolo, creando una cultura elitista; come quei cantautori di sinistra che — direbbe l’autoironico Brunori Sas di Secondo me — non hanno neanche un muratore ai loro concerti.
Se queste sono le responsabilità politiche degli intellettuali per il nostro ritardo, rispetto a Regno Unito e Francia, nello sviluppo di una democrazia culturale, le ragioni pregresse sono storiche: il romanzo è arrivato tardi e la tv ha emancipato il popolo dal dialetto, non dai suoi difetti. Per questo si leggono pochi libri e le persone di cultura sono viste con sospetto; così come queste diffidano da ciò che ha successo commerciale. Eppure c’è chi è riuscito a mediare tra qualità e popolarità: Fellini e Pasolini con il cinema sperimentale di massa, Monicelli con la commedia, Leone con il western... E oggi? I giallisti che hanno imparato dalla chiarezza di Giorgio Scerbanenco, le graphic novel che galoppano fuori dal tempo e dallo spazio come Tex Willer, registi come Luca Guadagnino e Paolo Sorrentino.
Per Canova una maggiore cultura cinematografica può fornire strumenti di produzione di senso e capacità di comprensione fondamentali per vivere liberi, nella Società delle Reti di oggi dove all’alfabetismo disfunzionale di ieri si somma l’analfabetismo iperattivo: si produce una marea di testi, foto e video ma si leggono, osservano e guardano meno di prima, con meno cura. Competenza e senso critico sono vitali: altrimenti saremo schiavi di quegli algoritmi che, nei consumi culturali come nelle valutazioni dei curricula, verniciano di efficienza e meritocrazia la nuova dittatura.