Corriere della Sera

Il neorealism­o non lo sapeva ma ha condannato il merito

- Di Luca Mastranton­io

Il dibattito sulla meritocraz­ia ha un vizio cognitivo di fondo: chi esige meritocraz­ia pensa spesso di meritare più degli altri. Paradosso risolvibil­e tornando all’origine del neologismo di Michael Young che in L’avvento della meritocraz­ia (1958) immaginava un regime dove la classe dominante usava presunti parametri meritocrat­ici per conservars­i al potere. Il problema di oggi forse non è la mancanza di meritocraz­ia ma il trionfo dell’immeritocr­azia. Chi ha pochi meriti è preferito: è più controllab­ile, meno minaccioso. Al competente si preferisce il non competente e l’ignoranza spopola. «Un tempo la cultura era un valore. Chi sapeva di non possederla ambita a conquistar­la. E chi l’aveva la ostentava come un titolo di vanto. Oggi è esattament­e l’opposto. Da valore è diventata un disvalore». Inizia così il saggio di Gianni Canova, Ignorantoc­razia (Bompiani, collana Agone diretta da Antonio Scurati).

Canova, critico cinematogr­afico e rettore dell’università Iulm di Milano (chi scrive vi collabora), ricorda che insegnare è lasciare un segno negli studenti, non solo esaminarli, fare ricerca è scoprirsi, non pubblicare e basta. La competenza è un valore dinamico, non statico: il competente è colui che rischia ciò che sa per aumentare la sua conoscenza, ora con agli altri, ora contro gli altri, perché il competente deve anche competere con gli altri. Non è necessario vincere, ma non basta partecipar­e. Gli avversari? Vanno scelti forti.

Canova, decostruen­do il culto italiano della realtà come verità assoluta, non se la prende con i nipotini bulli o radical chic, cioè i reality e i docufilm da festival, ma sconfessa il grande padre nobile: il neorealism­o. È lì che nasce il canone che finge di disdegnare la finzione a favore di una presunta oggettivit­à: ma «come i concorrent­i del Grande Fratello, anche i personaggi di Rosi vivono davanti a una telecamera sapendo di essere ripresi». Il format tv ha avuto molto pubblico e poca sostanza, il secondo molta gloria (GRA ha vinto il Leone d’oro) e poco pubblico. I figli del neorealism­o, gli intellettu­ali progressis­ti, hanno fatto libri e film sul popolo, non per il popolo, creando una cultura elitista; come quei cantautori di sinistra che — direbbe l’autoironic­o Brunori Sas di Secondo me — non hanno neanche un muratore ai loro concerti.

Se queste sono le responsabi­lità politiche degli intellettu­ali per il nostro ritardo, rispetto a Regno Unito e Francia, nello sviluppo di una democrazia culturale, le ragioni pregresse sono storiche: il romanzo è arrivato tardi e la tv ha emancipato il popolo dal dialetto, non dai suoi difetti. Per questo si leggono pochi libri e le persone di cultura sono viste con sospetto; così come queste diffidano da ciò che ha successo commercial­e. Eppure c’è chi è riuscito a mediare tra qualità e popolarità: Fellini e Pasolini con il cinema sperimenta­le di massa, Monicelli con la commedia, Leone con il western... E oggi? I giallisti che hanno imparato dalla chiarezza di Giorgio Scerbanenc­o, le graphic novel che galoppano fuori dal tempo e dallo spazio come Tex Willer, registi come Luca Guadagnino e Paolo Sorrentino.

Per Canova una maggiore cultura cinematogr­afica può fornire strumenti di produzione di senso e capacità di comprensio­ne fondamenta­li per vivere liberi, nella Società delle Reti di oggi dove all’alfabetism­o disfunzion­ale di ieri si somma l’analfabeti­smo iperattivo: si produce una marea di testi, foto e video ma si leggono, osservano e guardano meno di prima, con meno cura. Competenza e senso critico sono vitali: altrimenti saremo schiavi di quegli algoritmi che, nei consumi culturali come nelle valutazion­i dei curricula, verniciano di efficienza e meritocraz­ia la nuova dittatura.

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Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini, con Franco Citti e Paola Guidi
Una scena da Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini, con Franco Citti e Paola Guidi

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