Tappeti scintillanti in vetta Piccola storia dei ghiacciai
Il Trentino ha aperto la stagione sciistica. Oltre alle piste, è l’occasione per scoprire le storiche colate e le loro vicende di guerra, persone, scienza Dal Mandrone agli specchi che ispirarono Buzzati
R egione verticale, il Trentino, che nell’immaginario collettivo fa tutt’uno con gli strapiombi delle sue vette più famose: le Dolomiti. Quei capolavori cubisti della natura sono diventati l’emblema planetario della montagna rocciosa. Eppure c’è un altro Trentino. È il Trentino dei ghiacciai. I suoi nomi più noti sono Adamello, Marmolada, Careser, Fradusta. Sono una quarantina di colate fra grandi e piccole, vaste come rarefatte pianure mineralizzate o piccolissime, abbarbicate a qualche parete dolomitica, come gelidi diaspri decisi a resister al global warming.
La vedretta del Mandrone è la più grande colata delle Alpi italiane. Il suo piano abbagliante è uno spazio metafisico che sarebbe piaciuto a de Chirico. Vi presero la rincorsa gli alpini–sciatori italiani falciati dalle mitragliatrici austriache durante la guerra bianca. Andavano all’assalto su questo assurdo palcoscenico a oltre tremila metri e a osservarle sgomento c’era uno spettatore d’eccezione: il sottotenente Carlo Emilio Gadda: «Gli alpini del battaglione Val d’intelvi riposano sotto il manto greve delle altitudini, al Passo di Fargorida, dove li vidi allineati, distesa coorte, morire. Bianchissima era l’ascesa, verso il passo». Lassù, tra le rocce scheggiate di Cresta Croce, è rimasto un cannone italiano da 149. È ancora puntato verso le postazioni austriache del Corno di Cavento, anche se ormai sulla ghisa brunita della sua canna sono cadute le nevi di ottanta inverni. Gli alpini sudarono mesi per trascinarlo fino lassù servendosi di canapi da Marina: era l’«ippopotamo».
L’immenso tappeto scintillante del Mandrone, dove durante la Prima guerra mondiale atterrò perfino un aereo, veniva percorsa dalle slitte degli alpini cagnari, militari «fuori ordinanza», che, come strani eschimesi in grigioverde, correvano da una cresta all’altra per gli approvvigionamenti delle linee. Per sfuggire all’artiglieria austriaca i nostri soldati furono costretti anche a scavare un tunnel, la «galleria azzurra», che collegava la «città dei ghiacci» del Passo Garibaldi alla linea delle Lobbie. Una versione minore della grandiosa Eisstadt della Marmolada, una spettacolare opera di ingegneria militare che gli austriaci scolpirono tra il 1916 e il 1917 nel ghiacciaio della regina delle Dolomiti. I tunnel si inoltravano nel cuore della colata, che in alcuni tratti superava i cinquanta metri di spessore. Le gallerie si sviluppavano su un dislivello di un migliaio di metri e all’interno vivevano 2–300 Kaiserschützen. C’era perfino una cappella per le funzioni religiose. Appesi alle pareti delle Dolomiti di Brenta sono stati censiti una ventina di minuscoli ghiacciai. In tutto non raggiungono il chilometro quadrato di estensione, ma quello che resta in seguito ai cambiamenti climatici attribuisce a uno dei più selvaggi gruppi dolomitici il suo aspetto di alta montagna.
Diversi i ghiacciai delle Pale di San Martino. Siamo in zona Buzzati, che a questi altipiani detritici si ispirò per il deserto dei suoi tartari. Il ghiacciaio della Fradusta era un tempo secondo solo a quello della Marmolada, ma oggi il bianco lenzuolo, che spingeva una lingua fin dentro le acque di un lago, si è spezzato in due tronconi e l’ombelico di un mondo che non c’è più, anche se sciogliendosi ha regalato a questi altipiani sassosi un nuovo lago color smeraldo. L’altro ghiacciaio delle Pale è quello del Travignolo, «l’unico del gruppo che faccia uno sforzo determinato per scendere a valle» secondo l’alpinista Douglas Freshfield. E in effetti quel ripido canalone gelato tra il Cimon della Pala e la Cima Vezzana fu la provvidenziale via d’accesso per la prima ascensione del Cervino delle Dolomiti, portata a termine nel 1870 da Francis Fox Tuckett. L’alpinista inglese fu uno degli scopritori delle Dolomiti, che amò al punto da imparare i dialetti locali. Infine la vedretta del Careser, nel gruppo dell’ortles-cevedale, tra la val di Sole e di Rabbi. Non ha più l’imponenza di un tempo, quando veniva a fotografarla Ardito Desio, il capo–spedizione del K2. Eppure quel bacino nevoso è il più studiato dei ghiacciai del Trentino.
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