Corriere della Sera

«Filippo, mio figlio Un bravo sindaco morto senza niente»

Elena, 89 anni, madre di Penati: «Andrò con i miei nipoti alla cerimonia dell’ambrogino d’oro alla memoria» In un libro postumo la storia della famiglia lunga un secolo «Dalle lotte antifascis­te fino al tradimento del partito»

- Di Candida Morvillo

Questa è la storia di una madre che sopravvive al figlio, lei 89 anni e malata da tempo, lui 67, che se ne va il 9 ottobre scorso, portato via da un cancro che lo colpisce al culmine di anni di processi finiti in niente. Filippo Penati, già sindaco di Sesto San Giovanni, poi presidente della Provincia di Milano, braccio destro di Pier Luigi Bersani, era stato indagato per corruzione, concussion­e e altri reati, in parte assolti, in parte prescritti. Questa è anche la storia di un mondo di lotte antifascis­te e operaie tramandate di generazion­e in generazion­e, e di speranze che non sopravvivo­no né alla madre né al figlio, se non cristalliz­zate nell’autobiogra­fia di una famiglia che lui si siede a scrivere negli ultimi mesi. L’uomo che faceva le scarpe alle mosche esce postumo per La nave di Teseo giovedì. Elena Penati ha appena letto le bozze. Sta seduta con le spalle curve e lo sguardo indomito nel salottino del suo bilocale a Sesto. Sulla parete, decine di foto dell’unico figlio, col grembiule alle elementari, con la fascia tricolore… Sapeva che il suo Filippo lavorava a un libro, non che avrebbe scritto la storia sua e di suo marito, il Pep, e insieme la storia di una cittadina e di un secolo.

S’inizia con lo sciopero generale del 1920 dove s’incontrano i suoi nonni paterni, Teresa e Pippo, che morirà in un campo di concentram­ento, si prosegue coi nonni materni, Turiddu e Melina, emigrati dalla Sicilia nel 1946, primi «terroni» in tutto il circondari­o, si atterra nel dolore degli ultimi giorni. Elena fissa il piccolo televisore spento. Dice: «Ormai non guardo più i telegiorna­li, non m’interesso più. Da quando hanno indagato mio figlio, ho perso la fiducia».

In cosa l’ha persa? Nella giustizia?

«Nel partito. Il partito gli ha chiesto subito indietro la tessera e si è costituito parte civile contro di lui».

Gli ultimi tempi

Stava in affitto in 50 metri qui a Sesto. Per pagare gli avvocati, ho venduto la casetta comprata col Pep

Lei aveva la tessera del Pd?

«No, ma era qualcosa in cui credevo. Mio marito ha avuto il padre ucciso a Mauthausen perché aveva scioperato alla Breda controllat­a dai nazisti. Vennero a prenderlo, gli dissero: Penati è venuta la tua ora. Filippo stesso ricordava sempre con orgoglio che il nonno s’era rifiutato di nasconders­i e s’era fatto trovare a casa, pronto e vestito di tutto punto».

Suo figlio, nel luglio 2018, annunciand­o di avere un tumore, disse che era conseguenz­a delle vicende giudiziari­e.

«Così è. Aveva fiducia nella giustizia, ma la politica l’aveva addolorato e si arrabbiava perché la verità non veniva fuori. Cercava di resistere. Diceva “sono forte”. Anch’io lo dico, ma ora che lui non c’è più, la mia testa funziona e il corpo sento che mi abbandona di momento in momento».

Il libro si apre con suo figlio che l’accompagna dal medico.

«Sono stata ricoverata due volte, ma finché lui c’era, tenevo duro. Sono stata io a capire che stava male: l’ho visto a Telenova e gli ho sentito un fischio nella voce. Gli ho prenotato una visita. Dopo la diagnosi, passava a trovarmi e faceva la battuta: mamma, facciamo come quelli della Lega… Teniamo duro».

Che pensò quando lo seppe indagato?

«Fu uno shock, ma ero sicura al cento per cento della sua innocenza. È stato un bravo bimbo, un bravo giovanotto, un bravo sindaco… È morto senza niente. Stava in affitto in 50 metri qui a Sesto. Per pagare gli avvocati, ho venduto la casetta comprata col Pep a Rapallo e i soldi non sono bastati».

Il 7 dicembre avrà l’ambrogino d’oro alla memoria.

«Caspita se ci andrò. E coi miei due nipoti, che sono i suoi figli, due gioielli».

Com’è stato leggere il libro?

«Ho pianto. Di più quando lui racconta che mi vede nella sala d’aspetto del dottore, minuta, curva, ma in ordine e coi capelli fatti. Ho pianto quando mi chiama “la terrona del ‘30”».

La prima «terrona» di Sesto.

«Al Pep, per sicurezza, dissi che ero toscana. Poi, lo portai a casa e mi fece: però tuo papà l’è terùn. E io: lui sì, io no. Mio padre, prima di conoscerlo, invece, aveva preso informazio­ni. Gli dissero: è comunista. E lui: allora, è un bravo ragazzo».

Quanto era comunista il Pep?

«Quando la Garelli andò in crisi, lo chiamarono alla Ercole Marelli. Passò tutte le selezioni, poi fu convocato da un dirigente che gli chiese che quotidiano leggesse e lui: l’unità. Poi disse “scusi ingegnere, perché me lo chiede? Abbiamo lottato vent’anni per la libertà e ognuno legge il giornale che vuole”. Non lo presero».

Lei non se ne rammaricò?

«No: era nel giusto. Lo era anche quando, chiamato alle armi dalla Repubblica di Salò, disertò, per non andare con chi gli aveva ucciso il padre. Stette mesi nascosto nella paglia e perciò soffrì di fegato tutta la vita. Ci sposammo il 28 ottobre 1950, ma abbiamo sempre fatto l’anniversar­io il 29, per non festeggiar­e il giorno della marcia su Roma. E il 25 aprile, a casa nostra, era come Natale: col pranzo e tutto».

Sfumata la Marelli, suo marito che fece?

«Io vendetti la casa ereditata al paese e aprimmo una latteria. Poi dovemmo chiuderla e aprimmo una cartoleria. Filippo aveva 16 o 17 anni e, d’estate, vendeva i nostri prodotti ai negozi: s’era fatto clienti che gli compravano di tutto. Era bravo. Gli abbiamo insegnato sincerità, lavoro e onestà».

Chi gli ha raccontato le cose scritte nel libro?

«Il papà, finché c’è stato. È mancato nel ‘99, a 73 anni. Aveva nei polmoni la polvere dell’acciaieria, ma aveva amato tanto la fabbrica. Era un operaio specializz­ato. Si vantava dicendo che, col tornio, faceva pure le scarpe alle mosche. Più di recente, Filippo mi chiese di raccontarg­li bene: il giorno della Liberazion­e in cui fui presa ostaggio col mitra da un soldato canadese e il giorno del ’45 in cui il Pep venne inseguito e sparato da due fascisti che, invece, colpirono e uccisero un vecchio che passava di lì; mio padre che aveva perso i denti e io, ragazzina, che a pranzo, gli portavo la zuppa con la bici; i vestiti che cucivo da sarta già a 13 anni e poi “la curt del Cairo”, dove il Pep era nato e dove anch’io andai a vivere. La chiamavano così perché era zeppa di gente. Era favolosa per l’umanità e la solidariet­à che c’era».

Com’è adesso Sesto San Giovanni?

«Non ci sono più le fabbriche, ma la gente è ancora bella e sana. Il mio vicino, Mosè, egiziano, ha la moglie velata, ma ha quattro figli molto educati. Quando Filippo stava in ospedale, mi ci accompagna­va ogni volta che volevo. Non m’aspettavo che Filippo morisse, non me l’aspettavo neanche quando a tutti diceva: io muoio tranquillo».

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Giuseppe ed Elena Penati con Filippo
Anni 50 Giuseppe ed Elena Penati con Filippo
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A sinistra (foto grande) Elena Penati
(Di Martino da ragazza), 89 anni, con il figlio Filippo che si è spento il 9 ottobre a 67. Sopra, con il padre Giuseppe. Sotto, Filippo da piccolo
Le foto di famiglia A sinistra (foto grande) Elena Penati (Di Martino da ragazza), 89 anni, con il figlio Filippo che si è spento il 9 ottobre a 67. Sopra, con il padre Giuseppe. Sotto, Filippo da piccolo

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