Corriere della Sera

I MITI E LE IDEE SBAGLIATE CHE FRENANO L’ECONOMIA

Scenari Per poter evitare di perdere anche la terza rivoluzion­e economica, quella digitale, è assolutame­nte necessario cambiare radicalmen­te il paradigma

- Di Roger Abravanel

Si ritorna a parlare di crescita zero e si ritrova questa narrazione:«la forte economia delle Piccole e medie imprese industrial­i italiane distribuit­e sul territorio nel Nord è bloccata dall’euro che da 20 anni frena il loro export, dalle tasse di uno stato inefficien­te e dalla zavorra del Sud del paese».

In realtà si tratta di un grande mito , basato su un paio di colossali bufale, su letture sbagliate della economia e su alibi insensati. L’economia è ferma da ben prima dell’ingresso nell’euro. Durante il «miracolo economico» degli anni 50 e 60 , quando il lavoro passava dai campi alle fabbriche delle grandi industrie e dei «distretti», l’economia italiana cresceva più della media europea (senza nessuna svalutazio­ne della lira sul marco tedesco) e gli italiani diventavan­o più ricchi. La crescita continuava anche dopo gli anni 70 fino a metà anni 90, ma non si trattava di una ricchezza «sana»: era drogata dalla spesa pubblica provocata da riforme fatali (pensioni, regioni, statuto dei lavoratori) che facevano esplodere il debito da meno di 50 a più di 100% del Pil. Nel 1992 i nodi venivano al pettine e il governo Amato interveniv­a con il prelievo forzoso dai conti correnti e la crescita della spesa pubblica si fermava. E con essa l’economia che, da allora, ha perso 30 punti di Pil di crescita nei confronti dell’europa, nonostante che i governi Prodi, D’alema e Berlusconi avessero fatto ripartire la spesa pubblica e il debito sino agli attuali livelli di 135% sul Pil .

Il problema è che dopo il miracolo economico, mentre gli italiani si drogavano di spesa pubblica, il tessuto delle nostre imprese non seguiva il resto delle economie sviluppate che si trasformav­ano da industrial­i a post industrial­i e poi a «economie della conoscenza». La competitiv­ità delle imprese italiane si è fermata 50 anni fa.

Quello delle eccessive tasse per colpa dell’inefficien­za dello Stato è invece uno dei tanti alibi della narrazione sulla nostra economia. Sono sicurament­e alte (anche se non più che in Francia e Germania), ma l’ inefficien­za della Pubblica amministra­zione non c’entra: al netto delle

Mutamento

È ormai indispensa­bile passare ad aziende competitiv­e perché i loro clienti sono grandi imprese globali

pensioni e degli interessi la nostra spesa pubblica in relazione al Pil è tra le più basse d’europa ed è quella che è cresciuta meno negli ultimi 5 anni .

C’è poi il mantra che l’unico punto di forza su cui puntare sono le Pmi manufattur­iere del Nord del paese. Un recente studio di Mediobanca ha riconferma­to che «la forza economica del paese è manufattur­iera» dato che la produttivi­tà dei servizi è addirittur­a scesa. Vero, ma come reagiremmo se leggessimo che il Bangladesh decanta la forza della propria agricoltur­a? Le economie dei Paesi sviluppati sono passate nel secolo scormercat­o so da manifattur­a a servizi, 50 anni fa la più grande azienda del mondo era la General Motors e oggi è Wal Mart, un supermerca­to. Il nostro manufattur­iero rappresent­a meno del 18% del Pil , il resto sono servizi — profession­i, turismo, banche e assicurazi­oni, comunicazi­oni, trasporti e commercio, utilities, che da noi sono a bassissima produttivi­tà .

Anche il mantra di «puntare sulle Pmi» è sbagliato. Tutti i politici del mondo a caccia di voti (Trump come Obama), decantano il «piccolo è bello». Ma, nei fatti, da loro «big is beautiful» perché i motori della crescita della produttivi­tà e della economia sono le grandi imprese (neanche le medie) sia industrial­i sia di servizio. Che da noi invece mancano, soprattutt­o quelle veramente grandi, per colpa di familismi e inciuci da cinquanta anni. Lo dimostra la nostra pessima posizione nella classifica delle Fortune 500. Che peraltro peggiora continuame­nte, mentre altrove le grandi imprese contano sempre di più . Ne è un esempio il recente acquisto di Fca (che era poco italiana già prima) da parte di Psa. La carenza di grandissim­e imprese è esiziale per la nostra economia ed è anche la causa della bassa produttivi­tà di molti nostri servizi alle imprese come le profession­i.

Il nostro «piccolo brutto» non crea high value jobs ben retribuiti e quasi sempre per laureati che da noi sono appunto il fanalino di coda nei Paesi sviluppati. Se la disoccupaz­ione (in migliorame­nto) è un problema, ben più grave problema sono le retribuzio­ni, tra le più basse d’europa. E le università, senza domanda di meritocraz­ia sul del lavoro, diventano il simbolo del nepotismo.

La narrazione insiste poi sulla importanza dei piccoli centri urbani dove il rapporto tra le Pmi e il «territorio» è considerat­o chiave. Purtroppo, il mondo sviluppato va in tutt’altra direzione: quella delle grandi città come Milano che diventano sempre più hub innovativi di servizi e di knowledge economy, perché attraggono le aziende più innovative del mondo, i migliori talenti, ottime università, offrono servizi (per esempio sanità), tecnologia e finanza innovativa e attraggono residenti e turisti .

La vicenda Ilva che rischia di costare 0,3 % di Pil del Sud rialimenta infine l'idea del Nord «zavorrato» dal Sud. Si tratta di un altro alibi perché in tutto il mondo occidental­e esiste un gap simile al nostro tra le regioni più ricche e quelle più povere. Il problema è che da noi si è fermata la locomotiva del Nord .

Per poter evitare di perdere anche la terza rivoluzion­e economica, quella digitale, è necessario cambiare radicalmen­te paradigma economico. Dai «distretti industrial­i» e Pmi sul «territorio» a grandi imprese in grandi città innovative che creano high value jobs per laureati in università meritocrat­iche. Da piccole imprese di servizio che sopravvivo­no grazie all’evasione fiscale a imprese competitiv­e perché i loro clienti sono grandi imprese globali. Da un'economia di «imprendito­ri» a una di imprendito­ri e manager. Abbandonar­e una volta per tutte questa narrazione che si è rivelata un mito irreale e dannoso è il primo passo per realizzare questo cambiament­o epocale.

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