LÉVY A WEWORK QUANDO LA MODERNITÀ SCEGLIE LA MATURITÀ
«La nostra capitalizzazione di mercato si è moltiplicata cento volte in 30 anni. Se possiamo vantare numeri da startup, forse è perché siamo sempre stati guidati dallo stesso spirito imprenditoriale dal 1926». Lo ha detto Maurice Lévy nel 2017, congedandosi come amministratore delegato del colosso francese della pubblicità Publicis Groupe. Deve essere andato a rileggerselo in questi giorni Marcelo Claure, mentre si accomodava sulla scomoda poltrona di presidente di Wework.la parabola dell‘azienda americana nata nel 2010 che affitta spazi per lavorare in ambienti condivisi (il coworking) è ormai nota: era stata valutata 47 miliardi di dollari e puntava alla quotazione in Borsa, poi perdite annuali da quasi 2 miliardi e gli svarioni — finanziari e non — del suo carismatico e a modo suo geniale fondatore israeliano Adam Neumann l’hanno fatta precipitare e rimbalzare fra le braccia dell’investitore giapponese Softbank, che sta tentando di (capire come) risollevarne le sorti. È a questo punto che Claure ha chiamato Lévy, 77 anni, 37 in più del defenestrato fondatore di Wework, per riabilitare il marchio come capo del marketing ad interim. Dalla vertiginosa arrampicata di Neumann, che i dipendenti (ora tagliati del 20%) raccontavano essere stata bagnata da fiumi di tequila, all’esperienza di Lévy, che a inizio carriera invece di accenderli gli incendi (metaforici) li spegneva (o meglio, ha salvato dalle fiamme l’archivio di una nascente Publicis). La maturità al posto del genio e della sregolatezza, con l’auspicio di capitalizzare entrambe. Una certa Google ci aveva pensato agli inizi, lasciando per dieci anni il timone a Eric Schmidt, che aveva 18 anni in più di Larry Page e Sergey Brin. Quando, nel 2011, si sentirono pronti i due ripresero il controllo di un’azienda da 300 miliardi. Oggi ne vale più di mille. Ma questo Claure lo sa di sicuro.