La storia siamo noi e l’abbiamo messa al muro
Italia Arte di strada, anzi di più: Marco Imarisio passa in rassegna in un volume Rizzoli le tracce urbane di stagioni sociali più o meno recenti
Come insegnare storia contemporanea? Certo, è possibile continuare ad affidarsi a ricostruzioni che, pur se serie e rigorose, appaiono spesso poco coinvolgenti, lontane dalla sensibilità dei ragazzi di oggi. Forse, però, esistono anche altre strade. Prima di ripercorrere le avventure, le conquiste e i drammi del XX e del XXI secolo, si potrebbe muovere dal racconto di quello che sta accadendo adesso. Integrando le narrazioni manualistiche con prospettive diverse, laterali: più eccentriche. Come quelle suggerite in un libro di Marco Imarisio, edito da Rizzoli, Le strade parlano, che propone un’efficace combinazione tra testi e immagini.
Imarisio sceglie come campo d’indagine le esperienze corsare degli street artist italiani, i quali, sulle orme dei graffitisti e dei writer, senza committenza, con modi «barbarici», servendosi di pennelli, di spray, di sticker (adesivi autoprodotti), di plotter (poster dipinti a mano) e di stencil (decorazioni fatte con mascherine e sagome ritagliate in studio), creano murales e wall painting.
A differenza dei loro «antenati» degli anni Ottanta (da Keith Haring a Jean-michel Basquiat), essi non tracciano comunicazioni selvagge e spontanee, irruente e vitalistiche, poco docili e impervie. Preferiscono affidarsi a fulminee apparizioni, che sembrano urlare senza gridare. Le loro sono figurazioni di immediata efficacia mediatica e di facile riconoscibilità, simili a messaggi nella bottiglia, che arrivano subito a destinazione. Ricorrenti i paragoni arditi e le soluzioni ironiche, che lambiscono le vette della satira e del grottesco. Frequenti i rimandi alla storia della pittura (da Raffaello a Tiziano), ma anche i richiami alle culture pop, ai cartoon, al cinema, alla letteratura, al giornalismo.
«Le strade sono i nostri pennelli e le piazze le nostre tele», aveva scritto Vladimir Majakovskij agli inizi del Novecento. Siamo dinanzi a esercizi di un’arte pubblica, accessibile a tutti, spontanea, «improvvisa, non improvvisata», ricca di assonanze con il rap, nata dal basso, che, sovente, si deposita in spazi dal forte valore simbolico: «Il luogo è spesso parte del significato, lo completa, (…), nelle città come in posti più remoti, dove la sua presenza» costituisce «un segno di vitalità contro la decadenza e l’abbandono», ricorda Imarisio.
Accade così che facciate cieche di palazzi, infrastrutture, blocchi in cemento armato di cavalcavia e sottopassaggi periferici vengano trasformati nelle pagine di un diario dilatato, su cui si incontrano paure, ansie, appunti. Come
autentici inciampi visivi, che catturano subito gli sguardi — talvolta l’irritazione e l’indignazione — dei cittadini, sfidando le regole del decoro e dell’ordine pubblico.
Si tratta di una forma ingenua e poco sofisticata di una urban art, destinata a non resistere. Dipinti di nascosto, i graffiti, spesso, vengono censurati, negati, ricoperti. Ne restano solo le «riprese» di turisti, di residenti o di semplici passanti, che con i cellulari scattano fotografie, subito postate sui social: un modo per conservare drammaturgie potenti ma effimere.
Oltre ad avere una specifica qualità artistica, però, la street art, secondo Imarisio, ha una profonda tensione politica: «Può essere una bussola nuova e privilegiata, perché non guidata da interessi di sorta, per capire meglio la storia contemporanea, per ridurre all’essenziale i fatti e le tendenze della nostra società».
Iniziamo, dunque, a sfogliare l’album dell’italia del nuovo millennio attraverso gli occhi, i segni e i colori dei nostri street artist (che tendono a nascondere le proprie identità dietro nomi di battaglia). Le trasfigurazioni di
Tvboy: dalle effusioni tra Renzi e Berlusconi al bacio tra Di Maio e Salvini, alle «tre grazie» Conte-di Maio-zingaretti, sorvegliate dal Cupido-renzi. L’affaire-nazareno. Il j’accuse contro i «plutocrati» (Trump, Merkel). Le invenzioni da cartoonist di Maupal, che trasforma Papa Francesco in Super Pope. Gli omaggi a Falcone e a Borsellino e quelli a Emanuela Orlandi, a Valeria Soresin, a Giulio Regeni. Le affabulazioni mitografiche (su Maradona, su Pantani, su Senna, su Simoncelli, su Giorgio Gaber, su Fabrizio De André, su Alda Merini). Infine, i «reportage» sulle emergenze ambientali e civili dell’italia del nostro tempo (dalle battaglie dei No Tav al movimento #Metoo). Momenti decisivi, in questa cartografia, l’affresco di Pignon-ernst in cui si vede un Pasolini doppio, che tiene tra le braccia il proprio corpo. E Triumphs and Laments di William Kentridge, rilettura lirica della storia di Roma, dall’età augustea alla morte di Pasolini.
Scorrono le sequenze di un film vagamente neorealista. Ipotesi per riattivare la tradizione della pittura di storia, d’impronta naive, prive di ogni «tentazione» concettuale, queste opere en plein air hanno un valore di tipo essenzialmente giornalistico-testimoniale. Ne sono autori, artisti-cronisti, i quali pensano il proprio mestiere come un modo originale per osservare il presente che, ha sottolineato Claudio Magris, si dà come «brogliaccio di un tentacolare e gigantesco romanzo ormai globale», testo surrealista nel quale si trovano a convivere l’assurdità, il bene e il male, il coraggio, le inimmaginabili trasformazioni del mondo. La sfida: far affiorare l’eroismo dell’attualità, cercando di salvare dall’oblio alcuni episodi e alcune figure.
Nell’accostarsi, i vari episodi di street art scelti e commentati da Imarisio ci consegnano così il ritratto sintetico e mosso dell’italia di oggi. Ecco, Le strade parlano è innanzitutto questo: un’ipotesi diversa per riattraversare significative pagine della nostra storia contemporanea.