LA PAROLA ALLE COSE
L’appuntamento A Treviso una mostra ripercorre la storia di un genere dalla geografia complessa. Non solo Paesi Bassi: la riflessione sull’inanimato unì Spagna, Lombardia e Veneto
AD UN CERTO PUNTO LA PITTURA DIEDE VOCE AGLI OGGETTI E NACQUE LA NATURA MORTA
E ad un certo punto l’uomo scomparve dai quadri. Via le Madonne e i santi, via i papi e i duchi. Spazio a tavole imbandite e ceste di frutta, vasi di fiori e pesci imbambolati. Se il termine «natura morta» nacque in Francia nel Settecento, questa storia inizia molto prima, sin dalla seconda metà del Cinquecento, come documenta la mostra che si apre a fine mese a Treviso: nelle scene di mercato di Francesco Bassano (nato nel 1549) le figure umane sono come inghiottite dalla moltitudine di cose: vasi, pani, pesci, pollame. Il paesaggio poco per volta si affida alle cose inanimate e forse prende corpo qui quel bellissimo concetto che Michelangelo Antonioni sublimerà nei suoi film «l’oggetto-stato d’animo».
«La mostra ha un cuore nordico», dice Francesca Del Torre, curatrice assieme a Gerlinde Gruber e Sabine Pénot. Non solo perché vedrete cinquanta opere provenienti dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, ma per un motivo più profondo. La pittura delle cose è uno sguardo naturalistico, attento alla rappresentazione oggettiva delle mele come dell’animo umano. Un’attitudine che appartiene alla Lombardia così come al Veneto così come ai fiamminghi.
Ma da dove nacque questa eloquenza degli oggetti? Ebbene, le radici spostano l’asse geografico. Si potrebbe cominciare dagli allievi di Raffaello che, nel Cinquecento, copiavano le raffigurazioni floreali emerse dall’antica Roma. Oppure dalla Spagna, con le ombrose ceste di frutta di Blas De Prado. Dunque non dovrebbe stupire se poi, a Milano (provincia spagnola) fioriranno — letteralmente — le pesche di Fede Galizia, una donna, pittrice che iniziò a lavorare a dodici anni. O i ritratti fatti di cipolle, zucchine e melanzane dell’arcimboldo.
Spariva la figura umana perché quella frutta e quella verdura avevano delle cose da raccontare. E infatti raccontò i profondi mutamenti sociali e culturali del Seicento, per esempio, quando, nei Paesi Bassi soprattutto, questa tendenza si consolidò e si divise in categorie: i vasi di fiori, le vanitas, le scene di caccia. «In quei paesi — continua Del Torre — la borghesia ricca chiedeva queste opere, facevano status». Sì, perché se prendiamo per esempio le scene di caccia, un mercante di stoffe poteva esibire un cervo ucciso, selvaggina che nella tradizione feudale era preclusa ai semplici signori e riservata solo all’alta nobiltà.
Ma nella mostra c’è un’opera che dice molto: un vaso di fiori di Jan Brueghel il Vecchio, datato intorno al 1608. Bene, a fine ‘500 «Bruegel dei Velluti», come lo avevano soprannominato, era stato in Italia, più precisamente a Milano. E sapete chi frequentava? Il cardinale Borromeo, vicino a quello stesso Caravaggio che sul finire del Cinquecento aveva dipinto la Canestra di frutta, forse la natura morta più controversa (e studiata) del mondo.
Quel «cuore nordico» che la mostra vuole esplorare, allora, ha una geografia molto complessa, che parte da Roma e dalla Spagna e arriva in Lombardia e Veneto, poi dirama verso l’olanda e la Dresda dove lavorò Gasparo Lopez dei Fiori, uno nato a Napoli. E sono presenti il bergamasco Evaristo Baschenis e Ludovico Pozzoserrato, uno che si chiamava Lodewijk Toeput ed era nato ad Anversa ma che, al termine di lunghe peregrinazioni, scelse la marca Trevigiana, dove morì nel 1605.
Ecco perché questo viaggio nelle «cose che parlano» confluisce in una sezione dedicata alla fotografia: lo sguardo sulla «verità» del mondo non è solo fiammingo o veneto, ma è un intreccio di visioni tipico di un tempo cosmopolita, dove si viaggiava, ci si incontrava, ci si scambiavano opinioni. Un tempo nel quale la finzione era, al massimo, il trompe-l’oeil. E le pere di Cézanne partiranno da qui per andare a recuperare un’altra splendida immobilità, quella di Piero della Francesca. Ma questa è davvero un’altra storia.
Legami
Dal Kunsthistorisches Museum di Vienna 50 opere presentate in Italia per la prima volta
La curatrice
«La borghesia dei Paesi fiamminghi chiedeva queste opere perché facevano status»