Quartetto ceco per Bartók e Beethoven
Nell’otto e nel Novecento, la gloriosa, nobile storia del Quartetto per archi ruota rispettivamente attorno alla produzione di Beethoven e di Bartók, che di tal genere reinventarono morfologia e sintassi. Entrambi i musicisti, peraltro, elessero il Quartetto come il luogo privilegiato nel quale sperimentare le soluzioni armoniche e formali più audaci, anche a rischio di non essere capiti.
Da questo punto di vista il Quartetto in si bemolle maggiore op. 130 dell’uno e il Quartetto n. 4 dell’altro rappresentano due vertici assoluti. E proprio con queste due opere la Società del Quartetto ha completato il ciclo di esecuzioni integrali dei 17 di Beethoven e dei 6 di Bartók. A eseguirli si è presentato nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano il Quartetto Pavel Haas, formazione ceca dal buon pedigree, che vanta ottimo affiatamento e discreta personalità. Piccoli squilibri provengono dal fatto che il primo violino è un poco al di sotto del livello medio e il violoncello un poco al di sopra. Il bilanciamento delle quattro voci è buono ma lievemente imperfetto. Ciò tuttavia non compromette la chiarezza delle esecuzioni: le opere «respirano», arrivano alla platea — non folta purtroppo — come organismi vivi, grazie all’ottima energia propulsiva e al carattere arioso dei fraseggi, così tipici della scuola boema. La pagina beethoveniana, visionaria e poetica più d’ogni altra, è stata eseguita come originariamente pensata dall’autore: con la folle, astratta Grande Fuga come movimento conclusivo. Decisione da condividere.