Corriere della Sera

Quartetto ceco per Bartók e Beethoven

- Di Enrico Girardi

Nell’otto e nel Novecento, la gloriosa, nobile storia del Quartetto per archi ruota rispettiva­mente attorno alla produzione di Beethoven e di Bartók, che di tal genere reinventar­ono morfologia e sintassi. Entrambi i musicisti, peraltro, elessero il Quartetto come il luogo privilegia­to nel quale sperimenta­re le soluzioni armoniche e formali più audaci, anche a rischio di non essere capiti.

Da questo punto di vista il Quartetto in si bemolle maggiore op. 130 dell’uno e il Quartetto n. 4 dell’altro rappresent­ano due vertici assoluti. E proprio con queste due opere la Società del Quartetto ha completato il ciclo di esecuzioni integrali dei 17 di Beethoven e dei 6 di Bartók. A eseguirli si è presentato nella Sala Verdi del Conservato­rio di Milano il Quartetto Pavel Haas, formazione ceca dal buon pedigree, che vanta ottimo affiatamen­to e discreta personalit­à. Piccoli squilibri provengono dal fatto che il primo violino è un poco al di sotto del livello medio e il violoncell­o un poco al di sopra. Il bilanciame­nto delle quattro voci è buono ma lievemente imperfetto. Ciò tuttavia non compromett­e la chiarezza delle esecuzioni: le opere «respirano», arrivano alla platea — non folta purtroppo — come organismi vivi, grazie all’ottima energia propulsiva e al carattere arioso dei fraseggi, così tipici della scuola boema. La pagina beethoveni­ana, visionaria e poetica più d’ogni altra, è stata eseguita come originaria­mente pensata dall’autore: con la folle, astratta Grande Fuga come movimento conclusivo. Decisione da condivider­e.

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