Dignità e coraggio furono la risposta all’attacco insidioso dell’eversione
Le vittime della bomba, i poveri morti di piazza Fontana, sono rimasti via via schiacciati tra oblio, revisionismi, visioni di sinistra e versioni di destra. Nella Milano divisa anche sulle targhe alla memoria anno dopo anno rimbombava flebile la voce di qualche parente, sovrastata dalle notizie di scontri, di incidenti, di provocazioni neofasciste, di cortei dei collettivi autonomi. Dietro lo striscione «Famiglie vittime, strage di piazza Fontana» i cronisti annotavano sempre qualche faccia nuova: dopo i figli, i nipoti. Quanta dignità, quanta gente per bene.
Cinquant’anni dopo, questi i fatti, questa la fatica della memoria, questa la difficoltà di rappresentare in modo univoco una strage fascista, un momento tragico della nostra storia. Questo infine il rischio di lasciare alla politicizzazione il compito della testimonianza. Si deve a due donne, alla loro dignità e al loro coraggio, il passo avanti verso un dolore condiviso, quello che anche Milano sente di più.
Licia Rognini Pinelli. Non ha mai chiesto compassione, aiuti; non ha mendicato favori. Ha sempre ringraziato con commozione, chiedendo quel che è un suo diritto: giustizia per suo marito, su quella mai chiarita tragedia che il magistrato Gerardo D’ambrosio definì un «probabile malore attivo».
Gemma Capra Calabresi. Ha dato valore a una storia umana, evitando la strumentalizzazione politica di chi voleva intestarsi la memoria del marito. Con discrezione, senza apparire, ha educato i suoi figli tenendoli lontani dall’odio e dalla vendetta.
Quando, il 9 maggio 2009, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano le ha invitate al Quirinale per il Giorno della memoria delle vittime del terrorismo, si sono date per la prima volta la mano. «Finalmente due famiglie si ritrovano» ha detto Gemma Calabresi. «Fingiamo che non siano passati tutti questi anni» ha risposto Licia Pinelli. «Con Piazza Fontana lo Stato democratico si porta addosso un grosso peso» ha commentato il presidente.
Piazza Fontana non è una tomba alla memoria, da vedere o da visitare. Così com’è,
La scena
In questa immagine il fotografo Fabrizio Garghetti ha fissato lo spettacolo terribile della Banca nazionale dell’agricoltura devastata dall’esplosione nel quotidiano viavai di una città in grande effervescenza, è un luogo di passaggio, uno snodo per i tram. «La nostra umanità deve andare oltre le ideologie» ha detto il sindaco Letizia Moratti alla vigilia di una commemorazione. Dieci anni dopo, davanti al Comitato permanente antifascista e ai famigliari c’era il sindaco Sala: «Sono fiero di essere qui, di fronte a questa piazza. Ma sento più di prima il dolore nei confronti dell’ingiustizia e ho il timore che si perda la memoria».
Dodici dicembre 2019. Milano ricorda. Commemora. Non dimentica. Il Comune, d’intesa con i famigliari, ha realizzato un’installazione intorno alla fontana di diciotto formelle, una riepilogativa e le altre con i nomi delle diciassette vittime. Risarciscono una lunga attesa. Magari cambierà l’immagine della piazza. Forse qualche pietra nella quale inciampare aiuterà i più giovani a ricordare una storia terribile, a non passare oltre, a interrogarsi su fascismo, terrorismo, connivenze politiche e servizi deviati, ma soprattutto a non perdere la memoria di quei morti civili, rimasti incisi per cinquant’anni su una lapide, quasi invisibile, oltre i binari del tram.
I parenti delle vittime con la loro presenza attenta e instancabile hanno dato a tutto il Paese un esempio di eccezionale valore