LO SPIRITUALE NELL’ARTE
L’ANNUNCIAZIONE DI TINTORETTO ARRIVA A LECCO PER LE FESTE TRA STORIA E SIMBOLI RELIGIOSI
S low look. Si potrebbe chiamare così, per assonanza con il movimento slow food, la formula espositiva che propone una sola opera per volta alla lenta degustazione del pubblico. Collaudata ormai da una decina d’anni, la ricetta della «mostra-dossier» piace ai visitatori perché consente di portare a casa un «incantamento», un ricordo emotivo indelebile sottratto al quotidiano, indistinto flusso di immagini.
Tuttavia, perché la magia funzioni, è necessario che l’opera esposta sia un capolavoro o, come nel caso di questa tela del Tintoretto, abbia una storia speciale. La cosiddetta Annunciazione del doge Grimani è un quadro spettacolare, non foss’altro per la sua grandezza di 169 per 276 centimetri, fornito di tutta l’energia scenica tipica dello stile del gran rivale di Tiziano. L’angelo arriva forse dalla finestra spalancata in un turbinio di nubi e vento, e in un attimo si posiziona davanti a Maria. La quale, seduta allo scrittoio, alza gli occhi dal libro e, quasi spaventata, porta le mani al cuore.
«A giudicare dalla riproduzione fotografica, il dipinto sembra assegnabile a Domenico Tintoretto», scrivevano nel 1982, ipotizzando l’intervento del figlio del pittore, Rodolfo Pallucchini e Paola Rossi nel catalogo generale del Tintoretto edito in tre tomi da Electa. La scheda riportava la dicitura «ubicazione ignota» testimoniando così che i due studiosi non avevano potuto vedere l’opera con i propri occhi.
E qui entra in gioco la sua affascinante storia. Nel 1763 il quadro fu riprodotto da Pietro Monaco in un’incisione tratta da un dipinto di Jacopo Tintoretto in possesso del doge Pietro Grimani, a Venezia. Ottantatré anni dopo, nel 1846, lo ritroviamo nell’inventario della collezione bresciana dei conti di Lechi, che l’acquistarono dalla raccolta Grandi di Milano.
Intorno al 1910 passò poi nella collezione Castiglione di Vienna e da lì in Germania nel 1924, forse a Berlino o ad Essen. Fatto sta che proprio in Germania la sua piccola vicenda si incrocia con la grande Storia e con quella di uno degli uomini più nefasti, Hermann Göring, quel «bue ciccione che arraffava quattrini e decorazioni», come lo definiva nel suo diario perfino un gerarca fascista come Galeazzo Ciano.
Strettissimo collaboratore di Hitler, Göring era un piccolo borghese che si dava arie di grande collezionista senza accorgersi che spesso gli venivano rifilate patacche come un falso Vermeer. All’inizio comprava presso gli antiquari, e non pochi furono gli italiani compiacenti. Ma poi riuscì ad assicurarsi centinaia di capolavori semplicemente razziandoli dalle case delle famiglie ebree. Con l’invasione della Francia e l’istituzione della sezione speciale destinata al sequestro delle collezioni ebraiche, Göring arredò il suo castello nel Brandeburgo, come un museo. Ufficialmente il gerarca nazista immagazzinava le opere per il Reich, ma ben 1.376 dipinti, 250 sculture e 168 arazzi saccheggiati in Francia furono deviati nelle sue proprietà, come ricostruito dal Catalogo Göring, un documento stilato di nascosto dalla conservatrice Rose Valland, dimenticato negli Archivi del ministero degli Esteri francese e pubblicato da Flammarion nel 2015 per volere del ministro Laurent Fabius.
Anche l’annunciazione del doge Grimani, che già si trovava in Germania, finì probabilmente nel castello di Göring. Quello che si sa con certezza è che dopo la disfatta dei nazisti la maggior parte delle opere furono restituite, ma di altre non si riuscì mai a risalire alle famiglie proprietarie, spesso interamente sterminate.
Degli oggetti non reclamati fu creato un punto di raccolta a Monaco: all’inizio degli anni Sessanta restavano ancora 285 quadri e disegni, 155 sculture 123 mobili, 41 pezzi di tappezzeria, 425 di arti decorative. Qualcosa rimase nei musei di Monaco e di ciò che avanzava fu battuta un’asta nel 1966. Ed ecco che, alcuni mesi dopo, nel 1967, L’annunciazione ricomparve a Firenze nella Mostra d’antiquariato e poi di nuovo in asta a Milano nel 1989 quando entrò nell’attuale collezione privata.