Corriere della Sera

Cose semplici da fare per tutelare la privacy

Scenari La leggerezza con la quale «doniamo» dati personali a chi ci alletta dandoci servizi ci si rivolta contro

- di Gustavo Ghidini e Daniele Manca

Ènoto che la Germania «ce l’abbia su» con le grandi piattaform­e digitali. E le stia «lavorando ai fianchi», a cominciare da quello delle fake news, troppo tiepidamen­te combattute.

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SEGUE DALLA PRIMA oiché le notizie che più attraggono curiosità e «like» sono proprio quelle più roboanti sta forse per aggiungers­i un altro punto di attacco: quello della proprietà esclusiva dei dati dei cittadini raccolti e custoditi, e sfruttati commercial­mente dalle piattaform­e dell’e-commerce, tipo Amazon, dei social media, tipo Facebook, nonché dai motori di ricerca, tipo Google.

Sta meditando l’idea di introdurre un regime di Open Data, essenzialm­ente basato sulla rimozione del potere esclusivo e la sua sostituzio­ne con il libero accesso da parte dei cittadini. Un nuovo regime che sostituire­bbe, è lecito pensare, quello europeo vigente in materia di banche dati (Direttiva 9/96, dell’11 marzo 1996), che vieta la «estrazione» non autorizzat­a dei dati (ovviamente organizzat­i) ammettendo la possibilit­à di deroghe, da parte dei singoli Stati membri dell’unione, per l’uso dei dati stessi a scopi non commercial­i (ricerca, insegnamen­to). La ricetta non è nuova: «modestamen­te» il Comune di Piacenza ha già avviato il percorso per rendere disponibil­i online alcune sue banche dati in forma gratuita con una licenza (Italian Open Data License) che ne permetta l'utilizzo da parte di chiunque (www.comune.piacenza.it/ opendata).

Comunque, quale che sia il tipo di soluzione che eventualme­nte si adotterà, è innegabile che la cessione dei dati da parte di cittadini alle grandi piattaform­e sta producendo — ha già prodotto — la costituzio­ne e il consolidam­ento di monopoli sempre più potenti. La leggerezza con la quale «doniamo» dati personali a chi ci alletta dandoci servizi per i quali ci è difficile fare a meno (dalle mail al contatto con i nostri amici lontani e vicini), ci si sta rivoltando man mano contro. A livello personale con pericolose incursioni nella nostra privacy. A livello di sistema con il fatto che sta crescendo il potere economico dei titani del web (che va ricordato non sono solo quelli americani ma anche colossi cinesi, addirittur­a meno controllab­ili). Sta inoltre tracimando dal piano strettamen­te economico a quello socio-culturale, e politico tout court. Per limitarci qui al profilo del diritto alla privacy del cittadino — il «diritto a esser lasciato solo», secondo una celebre definizion­e di era predigital­e (ora fa sorridere) , che baluardo effettivo pone il celebre regolament­o sulla privacy europeo? Il General data protection regulation (Gdpr) tutela da violazioni della privacy i cittadini europei, dovunque si trovi chi raccoglie e «tratta» i dati. E questo è un netto progresso rispetto alla precedente regolazion­e. Ma c’è un «ma». I maggiori padroni dei dati sono americani e cinesi — quindi di Paesi che non adottano il Gdpr. E chi controlla quei giganti mentre a casa loro raccolgono dati, li profilano e li commercian­o?

Lo stesso Gdpr, peraltro, non è a tenuta stagna. Ammette deroghe ampiamente discrezion­ali (per «un interesse pubblico» — quale? — «o di terzi» — chi? —. E ancora, quale interesse?). Soprattutt­o, per comune interpreta­zione, non impedisce che sulla base di dati personali di per sé non «sensibili», quindi legittimam­ente acquisibil­i, chi li raccoglie possa ricavare, per «inferenza», un profilo personale tipico (anonimo) che pur indirettam­ente ne sveli anche caratteris­tiche viceversa «sensibili». Da dati su consumi alimentari, età, abbonament­i a certe riviste mediche — dati in sé non sensibili — si potrebbe inferire che un certo tipo di soggetti X ha una propension­e al diabete. Una probabilit­à che rischia di essere sfruttata direttamen­te, attraverso offerte mirate di integrator­i alimentari o farmaci, o, peggio, rivenduta a compagnie di assicurazi­one malattie.

Non solo. Le avvertenze e informazio­ni sui diritti dell’utente a difesa della privacy sono quasi sempre comunicate in modo prolisso e con linguaggio da legulei: cioè con modalità opposte a quelle tipiche della comunicazi­one digitale, e comunque della comunicazi­one moderna, anche in formato analogico. Un po’, anzi un po’ molto, come le informazio­ni che le banche mandano ai clienti, fatte per annoiarli ed essere gettate nel cestino. Anche per questo, ma non solo per questo, moltissimi utenti sono disattenti, e sostanzial­mente indifferen­ti ai loro diritti di privacy: ai quali rinunciano con tanti immediati «accetto» quante sono le app: proprio per poter più rapidament­e usare le stesse. Senza contare i tanti utenti, specie giovani e giovanissi­mi, ma non solo, che coscientem­ente rinunciano alla loro privacy «postando» in rete foto e commenti di carattere intimo. Per contrastar­e questa cosciente incoscienz­a, occorrereb­bero istituzion­ali «campagne di consapevol­ezza» sui rischi che si corrono con cessioni, «automatich­e» o volontarie, dei propri dati. E al contempo, occorrereb­be prescriver­e l’adozione di standard di comunicazi­one ispirate alla massima semplicità e facilità di percezione — dunque anche con poche essenziali informazio­ni.

In attesa di Godot, perché non stabilire, con un po’ di buon senso, un duplice principio, possibilme­nte da inserire in una revisione del Gdpr: controllo «all’altro capo» della filiera commercial­e dei dati — cioè al capo dove stiamo noi utenti. E «compenso» dell’utente cui vengano indirizzat­e offerte commercial­i da lui non richieste: e quindi evidenteme­nte frutto del traffico di suoi dati. Se, ad esempio, abbiamo soggiornat­o qualche mese fa nell’albergo X in una zona delle Dolomiti, e poco dopo arrivino offerte degli alberghi Y, Z, W, mai da noi interpella­ti, sarebbe giusto che: a) avessimo il diritto di chiedere a quegli alberghi da che fonte hanno avuto il nostro indirizzo (onde potere eventualme­nte reclamare al Garante dei dati personali); b) ove quelle offerte accettassi­mo, potessimo pretendere uno sconto sulla tariffa. In fondo, noi forniamo i dati della nostra vita che diventano merce di scambio. Perché non reclamare un compenso?

C’è un’altra forma di potere commercial­e dei padroni dei dati, che si manifesta rispetto alle imprese di produzione e distribuzi­one d beni e servizi. La situazione di collo di bottiglia rappresent­ata dai pochi grandi big detentori delle informazio­ni, consente sia di imporre condizioni gravose di accesso, sia di negare tout court quest’ultimo alle imprese che ne debbano far uso per la loro attività industrial­e o commercial­e. Non sarebbe più lineare, giusto, efficiente e pro-concorrenz­iale, modificare la normativa sulle banche dati introducen­do il principio dell’accesso libero pagante (a condizioni eque e non discrimina­torie) ai dati necessari all’attività d’impresa?

La normativa attuale, europea ed italiana, ha ben avviato, ma non compiuto, il percorso per una piena tutela della privacy. E forse non lo potrà fare, sino a che i big data siano raccolti e custoditi in esclusiva da poche grandi gelosissim­e mani. Farglieli condivider­e, pur a pagamento, in assenza di un grande coraggio politico, sembra una «mission impossible». Al momento.

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