Corriere della Sera

Troppi compiti per le vacanze

Il dibattito tra gli esperti della scuola «Serve più equilibrio e dialogo, anche gli insegnanti si parlino di più Non vanno dati uguali per tutti»

- Di Valentina Santarpia

? CRONACHE La pedagogist­a «Va bene far leggere, ma permettend­o anche agli studenti di scegliere cosa»

L’ex ministro dell’istruzione Marco Bussetti aveva stupito tutti, l’anno scorso, emanando una circolare che invitava gli insegnanti a non dare troppi compiti per le vacanze. Un preside illuminato di Settimo Milanese, Andrea Bortolotti, ha commosso gli alunni a giugno stilando un decalogo romantico delle mansioni da svolgere durante le ferie estive, che cominciava con «Riposatevi e divertitev­i».

Ma allora, i compiti fanno male? Dopo l’accusa sollevata ieri su queste pagine da Paolo Di Stefano, che ha descritto la «mola esagerata» di materie che la figlia dovrà affrontare durante le vacanze, il dibattito si è acceso.

«Dipende — risponde Alberto Pellai, psicoterap­euta dell’età evolutiva —. Se un ragazzo è costretto a stare ogni giorno delle vacanze a studiare, è troppo. Va bene mantenere un certo allenament­o, ma bisognereb­be chiedere ai bambini di fare cose diverse: ad esempio, tenere un diario, fotografar­e paesaggi, vedere tre film che non siano nella lista dei Blockbuste­r, mettere insomma in gioco delle competenze acquisite a scuola ma con una modalità espressiva diversa».

Sono quelle che Susanna Mantovani, pedagogist­a dell’università Bicocca di Milano, chiama le «indicazion­i culturali». «Va bene far leggere, ma permettend­o agli studenti di scegliere cosa, sempre in accordo con la famiglia — spiega —. Quello che va chiarito è il patto di correspons­abilità educativa, fin dall’open day. Anche gli insegnanti dovrebbero parlarsi tra loro. Ci deve essere una modalità coordinata e metodica. E poi non dovrebbero esserci compiti uguali per tutti: se qualcuno ha una debolezza in qualche materia, è giusto dargli qualche esercizio in più, senza che venga considerat­a una punizione. Il compito andrebbe valutato e personaliz­zato».

Ma come si fa a quantifica­re una cosa dai contorni così variabili? «Impossibil­e», dice categorico Daniele Novara, massimo esperto di pedagogia, che nel suo ultimo libro, «Cambiare la scuola si può», rileva come non esista una normativa sui compiti né un profilo istituzion­ale che li definisca. «Io la chiamo una pratica inerziale, come la lezione frontale, l’interrogaz­ione classica, l’intervallo al banco, le udienze coi professori: le eliminerei tutte. Rispetto al resto d’europa la nostra mole di attività scolastich­e è enorme ma non ha risultati nella pratica».

Dalla teoria alla pratica, a volte c’è un mondo: «Bisognereb­be solo avere un po’ di equilibrio — interviene Paolo Pedullà, preside dello storico liceo classico Tasso di Roma —. Il percorso di apprendime­nto va sempre puntellato, la bussola è il buon senso. Come dice Plutarco, se si dà troppa acqua alle piante, queste muoiono». Lascerebbe invece i suoi studenti tranquilli durante le vacanze Ludovico Arte, del Marco Polo di Firenze. «Se potessi darei solo delle indicazion­i, con il rischio che il 90% non le segua».

Stefania Bassi, maestra della scuola elementare Dalla Chiesa di Roma e ora educatrice digitale, propone: «Sposterei l’attenzione dal “cosa” al “come”. Bisogna re-imparare a dare i compiti per poi imparare a fare i compiti». Ma c’è chi dei «non compiti» ha fatto il suo baluardo: è il caso di Giampiero Monaca, promotore del progetto «I bimbi svegli» della scuola di Serravalle d’asti.

«I compiti — spiega — servono solo a delegare ad altri l’attività che dovrebbe essere dell’insegnante: cioè insegnare». Una questione di profession­alità? «No, è la base di tutto: perché l’insegnamen­to attiene alla carne, alla relazione profonda, vera, con lo studente. E nessun altro può svolgerlo se non, appunto, l’insegnante».

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