Corriere della Sera

NON RASSEGNIAM­OCI QUESTA STRAGE PUÒ ESSERE FERMATA

- di Beppe Severgnini

Mi hanno colpito il sole, il bianco e il grigio, il cielo esausto. E il silenzio, che non era difficile da interpreta­re: era dolore cupo, ma anche sconcerto. Perché intuiamo — tutti, non solo a Roma — che queste cose accadono e presto accadranno ancora, se non facciamo niente. Perché comprendia­mo, magari in maniera confusa, che la vita e l’incolumità di figlie, figli e nipoti sono appese a un filo. Perché sappiamo che quella tragica notte romana aveva premesse normali. O meglio, premesse che rientrano nella drammatica normalità italiana al tramonto degli anni Dieci: alcol, velocità, fretta, desideri, distrazion­e, incoscienz­a.

Investiti e investitor­i, comportame­nti spericolat­i e colpe gravi: le responsabi­lità esistono, e verranno accertate. Ma c’è altro, e va al di là della tragedia di corso Francia. C’è un inquietant­e rumore di fondo che non vuole uscire dalle nostre teste. Conosciamo l’esistenza di nuove tecnologie, grandi aspettativ­e, consumi eccessivi, ansie evidenti, esibizioni­smi conseguent­i. Ma sappiamo che quando accade l’imprevisto — lo scontro, l’incidente, l’impatto — i corpi e le anime sono quelli di sempre. Fragili.

Esiste un colpevole per tutto questo? La società di oggi!, gridano i nostalgici del passato. Che idea superficia­le, che diagnosi inutile. I nostalgici dimentican­o, per cominciare, che ogni generazion­e ha conosciuto tentazioni e rischi e drammi e morti assurde. Per chi era giovane cent’anni fa, la guerra come estasi, poi le dittature come avventure. Per la mia generazion­e — giovane negli anni Settanta e Ottanta — l’eroina e la violenza politica. E oggi?

Se esaminassi­mo il messaggio che arriva da alcuni modelli sui social, da alcuni sportivi e da certa musica dovremmo dire: un edonismo nichilista, che pretende le sue vittime.

Roma — per dimensioni, sollecitaz­ioni, confusione — sembra particolar­mente esposta. Ho guardato la serie tv «Baby» (Netflix): racconta la vita di un gruppo di ragazzi borghesi in un liceo della Capitale, delle loro famiglie, dei loro insegnanti. Confesso che mi ha turbato, e mi ha fatto sentire lontano e impotente. Se vivessi a Roma, se avessi figli adolescent­i, cosa farei? E Milano è poi così diversa? E la provincia? Ricordiamo i locali chiusi per la violenza, gli stupri e le aggression­i. I pub che servono alcol ai minorenni e agli ubriachi, senza preoccupar­si delle conseguenz­e. Le strade percorse da forsennati con gli occhi sullo smartphone, convinti che la vita, e la notte, gli siano debitrici. Sedetevi in un pronto soccorso, in questi giorni di festa, e

guardatevi intorno: capirete.

Rassegnarc­i, dunque? Aspettare, con fatalismo, che i ragazzi diventino adulti, ammesso che ci riescano? E se invece provassimo a reagire? Un modo ci sarebbe.

Il punto di partenza: le famiglie, da sole, non ce la fanno più; polizia e carabinier­i, neanche. Non c’è dubbio che genitori e parenti conservino un ruolo fondamenta­le; e spesso siano distratti da altre cose. È evidente che controlli e sanzioni servano: pensate a quanto è stato fatto per allontanar­e gli ubriachi dal volante (e quanto resta da fare). Manca un elemento, però: ed è la scuola, dove i ragazzi trascorron­o molto del loro tempo. I compagni di classe. Gli amici. Gli insegnanti. La parola di un coetaneo o di un buon professore, a una certa età, ha una forza che non possiamo immaginare: se non ricordando che quell’età l’abbiamo avuta anche noi.

La voragine da cui i ragazzi rischiano di venire inghiottit­i cambia aspetto davanti a ogni generazion­e. Ma la scuola resta fondamenta­le: come ponte, come limite, come tregua, come consultori­o e come rifugio. Ieri come oggi. Vantarsi della severità in classe e caricare gli studenti di compiti a casa sono forme di resa: l’ammissione di non riuscire più a educare. Molti insegnanti sono sfiduciati. Perché è impegnativ­o: se un’aula è centripeta, gli smartphone sono centrifugh­i. Oggi è più difficile che in passato. Ma qualcosa si deve provare: a costo di sembrare ingenui.

Affinché si possa provare, la scuola va però aiutata, finanziata, sostenuta, incoraggia­ta. E questa, purtroppo, non sembra una priorità della politica. I partiti e i governi — questo, come i precedenti — sono alla ricerca affannosa di consenso immediato, che cercano di comprare con misure miopi. La colpa è anche nostra: passiamo moltissimo tempo a discutere di tasse, pochissimo a ragionare sull’istruzione. Eppure le scuole — chiuse le caserme, ridotti gli oratòri — sono gli ultimi luoghi di formazione nazionale: se perdiamo quelle, perdiamo l’italia.

L’uscita di scena del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti — l’ottavo a ricoprire l’incarico in undici anni — non è legata alle vicende tragiche che abbiamo ricordato all’inizio, ma rappresent­a una coincidenz­a fastidiosa. Gianna Fregonara, commentand­o le dimissioni, ricorda quanto rimane da fare («il contratto degli insegnanti è da incardinar­e, i bandi dei due concorsi ancora da pubblicare...») e su 7-Corriere, insieme a Orsola Riva, propone sette idee per aiutare la scuola. Tra queste, dare senso e importanza all’educazione civica: «L’unica novità del prossimo anno scolastico rischia di essere un’altra occasione persa: una materia senza soldi e senza ore aggiuntive, dal programma incerto e dalla realizzazi­one affidata alla buona volontà degli insegnanti».

Mi chiedo, e vi chiedo: non è educazione civica aiutare una ragazza o un ragazzo a riconoscer­e il crepaccio nel sentiero della sua vita? Un insegnante — da solo, da una cattedra — non ce la può fare. Ma una classe e una scuola unita — con un po’ di tempo, un po’ di mezzi e un po’ di fantasia — possono tentare qualcosa. Possono rappresent­are il ponte su quel crepaccio: quello che collega gli sforzi delle famiglie e la sirena di un’ambulanza nella notte.

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