Corriere della Sera

Passioni e conflitti Il primo libro della serie dedicata ad Amos Oz

Il suicidio della madre Fania Mussman segna in profondità le sue opere Un percorso intellettu­ale fortemente radicato nella vicenda di Israele

- di Lorenzo Cremonesi

Gerusalemm­e 1952. Un mondo di sradicati, di profughi, di individui traumatizz­ati, sopravviss­uti a tragedie corali in cui erano però soli, spesso incapaci di affrontare i loro dolori individual­i, inadeguati di fronte al quotidiano. A tanti ebrei scampati allo sterminio nazista e immigrati fortunosam­ente nel Paese del latte e del miele «del deserto diventato giardino», come predicava allora martellant­e la propaganda sionista, mancavano intimament­e le foreste verdi e umide dove da ragazzi andavano a sciare sui Carpazi, sui Tatra, nelle Alpi austriache; mancavano il tedesco e il francese della borghesia colta, lo yiddish degli shtetl.

Avrebbero dovuto tornare sui banchi di scuola per imparare gli idiomi semitici dell’ebraico moderno, ma lo considerav­ano «troppo arabo», «orientale», primitivo, estraneo alla loro sensibilit­à culturale. Tanti tra loro erano immigrati ancora relativame­nte giovani, ma per tutto il resto della vita continuaro­no a frequentar­e i vecchi amici per parlare le lingue dell’infanzia, sempre più isolati dal resto d’israele. Detestavan­o il sole violento, la calura ossessiva dei pomeriggi mediorient­ali; rifuggivan­o gli odori intrusivi, acri, delle spezie e delle carni appese nelle bancarelle del mercato. Erano chiusi al nuovo, come ricci. Avevano impressi nella loro pelle i terrori dell’olocausto, le umiliazion­i dell’antisemiti­smo, il marchio della stella gialla. I loro incubi notturni erano costellati d’immagini di anziani picchiati arbitraria­mente per strada, di sinagoghe bruciate, segnati dal terrore di essere denunciati dal vicino di casa.

Se non si comprende tutto ciò non si possono cogliere i motivi del suicidio di Fania Mussman, la quale in quel grigio gennaio di quasi settant’anni fa, nella Gerusalemm­e divisa in due dalla guerra, decise che sarebbe stato meglio morire e lasciare solo il figlio dodicenne assieme al marito Yehuda Arieh Klausner, piuttosto che continuare a trascinars­i in una vita da profuga nell’anima. Quel bambino orfano era Amos Oz.

In genere gli scrittori hanno un tema forte, che ne segna la vita e quindi la narrativa, le emozioni, la voglia di raccontarl­i per capirsi e farsi capire. Non è dunque strano che per il futuro Amos, destinato a diventare uno dei massimi scrittori israeliani, quel tema forte fosse appunto la scomparsa della mamma. Un evento drammatica­mente personale, un trauma intimo, eppure anche profondame­nte legato alle vicende degli ebrei nel Novecento e alla storia della nascita d’israele. «Lui in verità scrisse in mille modi lo stesso libro, al cuore delle sue opere ci fu sempre il desiderio nascosto o esplicito di esplorare le radici e le infinite conseguenz­e della morte di Fania», ha spesso notato la critica israeliana.

Non a caso nella nuova collana in edicola da oggi con il «Corriere della Sera» il primo titolo è Una storia di amore e di tenebra. In quest’opera Amos Oz cerca di fornire un racconto completo e maturo di quel suicidio. Vi aveva provato da giovane con Michael mio, il terzo titolo della collana in vendita dal 11 gennaio. Un libro fresco, per molti versi molto autentico. Vi si coglie l’irruenza del giovane sabra (ebreo nato in Israele) deciso a sfruttare l’energia offerta dalla società del Kibbutz dove risiedeva e però ricco del passato greve e fertile della sua storia famigliare. Ma in Una storia di amore e di tenebra quell’evento diventa epica, lo specchio di un Paese e della generazion­e dei suoi fondatori arrivati dalle rovine dell’europa centro-orientale.

Per ben oltre trent’anni ho frequentat­o regolarmen­te Amos per chiedergli interviste e commenti sui suoi libri e soprattutt­o sugli sviluppi politici del conflitto israelo-palestines­e. E spesso in un mocome do o nell’altro siamo tornati a parlare delle radici del suo slancio letterario. Un mondo doloroso, che lui elaborava ogni volta con energia ammirevole. Mai avrebbe indugiato a piangersi addosso.

Amos era uno scrittore civile. Un «intellettu­ale impegnato», si sarebbe detto anni fa. Pacifista scettico, credeva alla necessità del dialogo, perché l’alternativ­a sarebbe stata la guerra, con un carico di mali indicibili. Parlava della soluzione con «due Stati», l’israeliano e il palestines­e. «Siamo una coppia che divorzia. Meglio due appartamen­ti piccoli alla condivisio­ne di uno grande, ma lacerato dalle tensioni. E la separazion­e deve essere netta, chiara, ben stipulata», ripeteva.

Aveva fortemente voluto l’accordo di Oslo nel 1993 con Arafat. Poi però aveva plaudito alla repression­e contro gli estremisti islamici di Hamas. Allo stesso modo detestava i coloni israeliani fondamenta­listi. Temeva l’ideologia radicale dell’hezbollah libanese. Tra i suoi testi inclusi nella collana, uno s’intitola Contro i fanatici. Il suicidio della bella, gracile, sensibile Fania, stava a ricordargl­i che non si deve mai abbassare la guardia. La pace va salvata, garantita, difesa, anche con le armi, se necessario.

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 ??  ?? Lo scrittore israeliano Amos Oz (1939-2018) riceve il prestigios­o premio letterario Goethe a Francofort­e sul Meno il 28 agosto 2005 (foto Ansa)
Lo scrittore israeliano Amos Oz (1939-2018) riceve il prestigios­o premio letterario Goethe a Francofort­e sul Meno il 28 agosto 2005 (foto Ansa)

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