La litoranea dei fantasmi
Antonio Talia percorre la costa jonica. E racconta la ’ndrangheta tappa dopo tappa
Non è forse un buon modo per iniziare, se ci si attiene all’uso comune. Però l’immagine si fissa subito in mente, c’è quel fondo nero opaco da cui affiorano, come venissero a galla dal buio, tali da non poter essere messe a fuoco a prima vista, due pistole: una dritta e l’altra rovesciata; in quella posizione, compongono una forma all’inizio incerta, ma poi definita dalla linea di rosso intenso che sembra quasi sgocciolata da un pennello, e che ripercorre il contorno delle due armi per dare il senso all’immagine; così, alla fine, eccola: la Calabria, dove la terra è metallo di pistola e il profilo della costa una densa strisciata di sangue, mentre tutt’intorno il mare s’addensa solo come fondale scuro. L’unica concessione esclusivamente grafica e non simbolica, in questa copertina, è una linea gialla diagonale che la taglia nel mezzo. Sotto, il nome dell’autore del libro: Antonio Talia; sopra, il titolo: Statale 106. Viaggio sulle strade segrete della ’ndrangheta (editore Minimum fax). Di fatto, si scoprirà presto, la strada è una sola ed è la vera protagonista della narrazione, la litoranea che risale la costa Jonica, un tracciato per gran parte sovrapponibile alla striscia di sangue della copertina. Il racconto è un viaggio di 104 chilometri e 288 pagine, in dodici tappe, fino a Siderno (e ritorno). Con l’ultima stazione, il dodicesimo capitolo, che stravolge l’ordine spaziale d’avanzamento: «Km 0, Reggio Calabria».
La Statale 106 è un’antica arteria istituita nel 1928, poi col tempo prolungata fino alla Basilicata e a Taranto, ma il libro si concentra solo sul tratto reggino: qui la strada si fa metafora e paesaggio, memoria e cronaca, catabasi in cui gli inferi s’esplorano senza discendere, via senza fuga e via crucis, dove i morti ammazzati diventano (sempre, immediatamente, prima ancora che arrivi il rigor mortis) fantasmi e personaggi di storia. Il primo cadavere, quello probabilmente più carico di simbologie, di trame e di rimozioni, s’incontra subito, alla tappa numero uno («Km 15, Bocale»). Eccolo: «Lodovico Ligato, ex giornalista, ex consigliere comunale, ex parlamentare, presidente dimissionario delle Ferrovie dello Stato» (dopo uno scandalo di corruzione), ammazzato davanti alla sua villa di fronte al mare e al panorama sullo stretto di Messina nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1989. In questa scacchiera politica, sociale e criminale, è il cadavere probabilmente di più alto rango (per quel che è stato da vivo), ma anche il più dimenticato: «Il genere di morto ammazzato — sintetizza Talia — da cancellare dall’album di famiglia il più presto possibile».
La famiglia era la Democrazia cristiana. Prima di conoscere il «fantasma», facendo una breve sosta sulla SS 106, abbiamo visto la sua villa: «I muri un po’ scrostati, un giardiniere che si prende cura delle bouganville»: «Ma tutte le volte che sono stato qui i vicini mi hanno sempre raccontato che la famiglia non frequenta più la casa, alludendo alle cattive memorie di cui ancora è carica trent’anni dopo». Così la cronaca torbida dei morti (con le guerre di «criminalità», le macchinazioni della politica, le sofferenze degli uomini) prende corpo in paesaggio.
Statale 106 è un racconto della ’ndrangheta che non pretende di offrire rivelazioni, esaustività, analisi criminologiche, ma che al posto delle genealogie dei clan descrive i luoghi (la villa di Rocco Morabito, che cade a pezzi dal 1995, e «oggi è un rudere abitato solo da corvi e piccioni» — «Km 74, Africo nuovo»); fissa immagini (gli allevamenti di struzzi che negli anni Ottanta riempiono un lungo tratto della litoranea e che hanno un loro sotterraneo legame con la stagione dei sequestri — «Km 62, Brancaleone Marina»); ripercorre ricordi personali d’adolescenza (la gita domenicale con i genitori da «zio Mimì», al circolo del tiro al piattello, dove la «sottocultura delle armi» si tramanda dagli adulti ai giovani secondo la convinzione che «il ragazzo deve imparare a bere, il ragazzo deve imparare a sparare» — «Km 86, Bovalino»).
Sulla ’ndrangheta aleggia ancora oggi il luogo comune di una mafia sconosciuta, o poco studiata, o almeno in parte ancora da scoprire o rivelare. Le inchieste però la raccontano a ritmo continuo, in forme sempre più approfondite (la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, il 19 dicembre scorso, con i carabinieri del Ros e del comando di Vibo Valentia ha chiuso un’indagine con 334 arresti che comprendevano politici, avvocati, commercialisti, funzionari dello Stato, massoni). Ma oltre le inchieste, sulla criminalità organizzata calabrese esiste ormai una bibliografia assai corposa, e non sempre necessaria. Nell’affollatissimo catalogo attuale di «’ndranghetologia», Statale 106 è un libro che parla anche ai neofiti, ai non appassionati del genere. Lo fa per scelta narrativa: l’architettura di un racconto di viaggio, l’identificazione di una mappa per l’orientamento lungo la strada. Una Route 66 senza avventura, una Grand corniche senza belvedere, la linea d’ombra di una terra di mare dove il mare si guarda poco e niente. La racconta un calabrese che prova a risalire alla «fonte della sindrome». E che trasmette la tristezza del raccontare.
La strada si fa metafora e paesaggio, memoria e cronaca, catabasi in cui gli inferi si esplorano senza discendere, via senza fuga e via crucis