Corriere della Sera

COSA SERVE CONTRO LA POVERTÀ

Reddito di cittadinan­za La riforma ha dotato il welfare di un tassello mancante, ma aveva alcuni vizi di origine che con un minimo di attenzione si potevano evitare

- Di Maurizio Ferrera

Il reddito di cittadinan­za si appresta a celebrare il suo primo compleanno. È stata una riforma importante, che ha dotato il welfare italiano dell’ultimo tassello mancante: la garanzia di un reddito minimo a chi è privo di risorse sufficient­i per far fronte ai bisogni della vita quotidiana.

L’unione Europea aveva esortato i Paesi membri a dotarsi di questa misura già nel 1993. L’italia è stata l’ultima a uniformars­i. Partire in ritardo aggrava i problemi, ma può anche fornire un’opportunit­à: quella di imparare dall’esperienza altrui. Purtroppo il governo giallo-verde non lo ha fatto. E, inspiegabi­lmente, ha deciso di ignorare anche la sperimenta­zione già in corso in Italia, quella del reddito di inclusione (REI). La riforma è così nata con alcuni macroscopi­ci vizi d’origine, che un minimo di preparazio­ne e attenzione avrebbero potuto facilmente evitare.

Il reddito di cittadinan­za (RDC) è stato innanzitut­to sovraccari­cato di funzioni. Il decreto istitutivo lo ha presentato come misura «fondamenta­le di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguagli­anza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazio­ne, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inseriment­o sociale dei soggetti a rischio di emarginazi­one nella società e nel mondo del lavoro».

T roppi obiettivi, che negli altri Paesi sono, correttame­nte, assegnati a un più ampio ventaglio di politiche. Meglio sarebbe stato focalizzar­si sul contrasto alla povertà e all’emarginazi­one: una vera emergenza nel nostro Paese, perché riguarda soprattutt­o i bambini. Fra i nuclei che benefician­o del RDC, quelli con presenza di minori sono «solo» 368.000 su 890.000, ma i loro componenti rappresent­ano quasi il 60% del totale. Se tutti gli adulti «avviabili» trovassero un lavoro — ipotesi purtroppo poco plausibile, soprattutt­o al Sud — la sicurezza economica dei nuclei numerosi aumentereb­be, ma la sfida dell’inclusione sociale resterebbe pressoché inalterata (pensiamo all’evasione scolastica o alla povertà educativa). Come avviene negli altri Paesi, lo strumento da privilegia­re su questo fronte è il welfare locale: un insieme capillare di servizi sociali volti a «capacitare» le persone e non solo a sussidiarl­e. Per fortuna, l’infrastrut­tura costruita dal REI non è stata cancellata. È da qui che bisogna ripartire.

Un secondo vizio d’origine del RDC è legato agli importi. Al di là dei vantaggi politicoco­municativi, non è chiaro perché il governo giallo-verde e in particolar­e l’ex ministro del Lavoro Di Maio si siano impuntati sui famosi 780 euro mensili. Si tratta di una cifra che — espressa in percentual­e del reddito mediano — è quasi il doppio degli importi che Francia o Germania prevedono per una persona singola priva di risorse. Una soglia così alta ha ristretto i margini di manovra per la cosiddetta «scala di equivalenz­a», in base alla quale calibrare l’ammontare della prestazion­e tenendo conto dei familiari. Così un nucleo di sei componenti finisce per ricevere, in media, solo 150 euro in più al mese rispetto a una coppia senza figli. Un paradosso, consideran­do appunto gli alti livelli di povertà minorile.

Il terzo difetto congenito del RDC riguarda l’inseriment­o lavorativo. Le esperienze internazio­nali segnalano che le difficoltà non provengono solo dall’offerta (scarse competenze e capacità dei disoccupat­i) ma anche da quello

Confronto

La cultura politica italiana è poco attrezzata per ragionare in modo empirico e pacato

della domanda (disponibil­ità di posti e richieste da parte delle imprese). Le politiche attive — quelle affidate ai centri per l’impiego e ai famosi navigator — hanno un’elevata probabilit­à di fallire nei contesti privi di opportunit­à d’impiego. Nella maggior parte dei casi, gli «avviabili» rischiano di trasformar­si da poveri in cerca di lavoro a lavoratori poveri e precari. Per contrastar­e questa spirale, molti Paesi hanno agito in due direzioni. Innanzitut­to introducen­do incentivi selettivi alle assunzioni, per abbassare il costo del lavoro. In secondo luogo, hanno erogato sussidi pubblici alle basse retribuzio­ni. Il provvedime­nto istitutivo del RDC prevede alcuni passi almeno nella prima direzione. È urgente intensific­are gli sforzi, sennò è ben difficile che i Patti di Servizio e quelli di Lavoro possano produrre risultati. E in particolar­e nel Mezzogiorn­o il RDC finirà per degenerare in un sussidio a perdere, bersaglio di quelle pratiche di cattura clientelar­e e di corruzione che sono state una costante storica del nostro welfare.

Sul reddito di cittadinan­za si è aperto da qualche tempo uno sterile confronto fra attaccanti e difensori l’un contro l’altro armati. La cultura politica italiana è ben poco attrezzata per ragionare in modo empirico e pacato sulle politiche pubbliche. In questo caso, sarebbe bene però cambiare registro. La povertà è un problema serio e reale, soprattutt­o se colpisce i bambini: la civiltà di un Paese si misura anche in base alla capacità di occuparsi dei suoi cittadini più vulnerabil­i. Per evitare la palude delle recriminaz­ioni e dell’inazione, è il governo che deve dare presto un segnale. Il provvedime­nto istitutivo prevede un Rapporto annuale sull’attuazione del RDC. Lo aspettiamo e ci aspettiamo che sia uno studio serio e valutativo, non una semplice collezione di tabelle. Se il Conte 2 vuole essere un governo di legislatur­a, il reddito di cittadinan­za deve restare ai primi posti dell’agenda: non per «abolire la povertà», ma per contrastar­la nel modo più efficace.

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