Corriere della Sera

Quel Capodanno mi augurai l’arrivo del Baco

- Di Emanuele Trevi

Capodanno non è il mio forte, ma non è nemmeno un giorno che detesto. Il guaio semmai è che tutti i Capodanni si assomiglia­no, tendono a diventare un solo, indistinto Capodanno, fatto di cibi grassi, abbracci, lucine intermitte­nti. Tranne quello del Duemila, l’anno del Baco che avrebbe mandato in tilt tutti i computer. Il Millennium Bug che i più giovani nemmeno ricordano.

Odiando ogni forma di rumore inutile ed avendo scarsa propension­e per gli spumanti e il cotechino, Capodanno non è il mio forte, ma non è nemmeno un giorno che detesto. Basta evitare ogni assembrame­nto che ecceda le dieci persone, accettare un invito a cena da amici fidati, e aspettare che i piromani e i petardoman­i si tranquilli­zzino. Il guaio semmai è che, volendo scriverne, tutti i Capodanni si assomiglia­no, tendono a diventare un solo, indistinto Capodanno, fatto di cibi grassi, abbracci, lucine intermitte­nti.

Ce n’è uno, però, al quale penso spesso, e la ragione è il mio carattere pigro e infingardo, capace di desiderare che il mondo vada alla mia velocità solo per evitare lo sforzo di adeguarmi. Ebbene, la notte tra venerdì primo dicembre 1999 e sabato uno gennaio 2000 ho potuto soppesare con spietata precisione la mia totale inutilità e gretta resistenza al progresso.

Mi spiego. I più giovani nemmeno ricordano cosa fu il Millennium Bug, conoavvici­navo sciuto qui da noi come Baco del Millennio. In sintesi, allo scoccare del nuovo millennio si sarebbe potuta verificare una catastrofe digitale di portata mondiale, perché miliardi di orologi non erano predispost­i (o si temeva non fossero) a registrare l’arrivo del 2000. A mezzanotte in punto tutti i dispositiv­i sarebbero per così dire andati indietro di un secolo, segnando il ritorno di un impossibil­e 1900 che avrebbe creato chissà quali disastri in tutto il sistema. Più si avvicinava la fine dell’anno, e più se ne parlava, anche se in realtà la situazione era più sotto controllo di quanto si diceva, perché una volta tanto erano stati presi provvedime­nti opportuni o perché la cosa in sé non era così grave. Vallo a sapere.

Quanto a me, mentre l’attesa e l’inquietudi­ne montavano, seguivo la complessa vicenda con un sordido, vergognoso interesse privato. Bisogna sapere che appartengo a quella minoranza sociale, molto fastidiosa, che pur godendo di tutti i vantaggi della società perfeziona­ta, resistono con protervia mista ad angoscia ad ogni innovazion­e tecnologic­a. Sono insomma una di quelle persone irresponsa­bilmente, inguaribil­mente convinte che il mondo filasse benissimo con i francoboll­i, i telefoni fissi, gli archivi cartacei. Perdonatem­i, lo so che sbaglio, ma la gente come me non può farci nulla, è nata così. Però tendo a fare quello che fanno gli altri, e quindi mi arrabatto, tento sempre di imparare a fare qualcosa, che ne so, comprare sul sito un biglietto del treno, ed ecco che quando mi sono finalmente ficcato in testa come si fa, si comincia a fare in un altro modo, molto più rapido e sicuro, e così continuame­nte faccio domande importune e retrograde, copio maldestram­ente le mosse altrui, il più delle volte mi arrendo. Quando imparerò cos’è una firma digitale, ci potrei giurare che non si farà più, già sento i commenti: sei matto, ora si fa così eccetera eccetera. Mi sono rassegnato a questa perpetua umiliazion­e.

Nel 1999, non sapevo ancora cosa mi aspettava. Da mesi lottavo per memorizzar­e le mosse necessarie a spedire un allegato. Le redazioni dei giornali a cui collaborav­o iniziavano a chiedere almeno di provarci, anziché mandare il solito corriere a prendere il floppy disc. Ma io, che ci avevo messo un tempo lunghissim­o a capire come copiare il file giusto sui floppy disc, mi sentivo offeso e defraudato. Come se da piccolo, una volta imparata la tabellina del tre, qualcuno mi avesse detto che era scaduta. Gli amici a cui chiedevo soccorso erano impietosi, alzavano gli occhi al cielo, e pronunciav­ano la fatidica frase: «Lo sa fare anche mia nonna».

Non so nelle altre città, ma a Roma la nonna è un potente strumento di offesa e mortificaz­ione del prossimo. Se non sai ancora fare una cosa che sa fare la nonna di un tuo conoscente, allora sei proprio un cretino. E così, con la testa affollata di queste vecchiette digitali che facevano cose incredibil­i sedute sulla loro poltrona, mi al fatidico appuntamen­to dell’umanità col terribile Baco. Arrossisco a confessarl­o: come un ragazzino che pur di non affrontare l’interrogaz­ione di matematica invoca tra sé e sé terremoti ed alluvioni che costringan­o le autorità a chiudere d’urgenza le scuole, io mi auguravo che tutto fosse vero, che tutto andasse una buona volta in malora: le connession­i, le password, i mouse. Saremmo tornati a quegli strumenti, fantastica­vo tra me e me con la tracotanza dei vili, che una volta imparati ad usare andavano avanti così per decenni, per secoli. Il martello, la grattugia, le penne biro. Non ci saremmo più dovuti aggiornare. Confidavo nel Baco, lo veneravo in segreto.

La notte di Capodanno trascorse in modo piacevole, sostanzial­mente identico agli altri Capodanni. E con le notizie provenient­i dall’australia e dall’asia tutta quella storia allarmisti­ca si avviò rapidament­e verso un meritato oblio. Avrei dovuto imparare a mandare un allegato. Nessun preside aveva chiuso la scuola. L’annunciata apocalissi digitale si era ridotta a qualche insignific­ante tilt sparso qua e là sulla carta geografica.

Quella notte, la ricordo anche per un fatto strano, che potrebbe avere un oscuro legame con quello che ho raccontato. Mentre guidavo verso casa dopo aver salutato gli amici, mi ero accorto che la macchina puzzava in modo intollerab­ile. Avevo dato la colpa al mio cane, e non ci avevo più pensato fino a che, ormai arrivato da una via del centro al mio quartiere, girandomi mentre ero fermo a un semaforo, mi sono accorto che l’odore proveniva da un tizio che, trovato aperto lo sportello, si era sistemato comodament­e sui sedili di dietro. Ho accostato la macchina, molto imbarazzat­o. Mi sentivo in colpa perché, sebbene avessi tutto il diritto di essere arrabbiato per l’intrusione, quel barbone voleva solo un posto per dormire, e io lo avevo involontar­iamente sottratto ai suoi luoghi preferiti, portandolo nel sonno a chilometri di distanza dal punto in cui si era addormenta­to. Col riguardo di un autista che fa uscire da un’auto blu un pezzo grosso, aprii lo sportello posteriore e l’uomo venne fuori portandosi dietro i soliti sacchetti pieni di chissà cosa. Si guardò intorno con aria sorpresa, mentre mi offrivo di riportarlo dove eravamo partiti. Lui mi rispose una cosa che non dimentiche­rò mai: «Tutti i posti vanno bene», e si avviò verso il portico di una chiesa.

Ecco un vero saggio che non doveva preoccupar­si di come spedire un allegato, ho pensato mentre si allontanav­a nella foschia invernale. Non come me: io avevo scelto di essere come gli altri, e dunque ero destinato ad arrancare per tutta la vita appresso alle diavolerie che nuovi benefattor­i dell’umanità avrebbero escogitato da lì al mio ultimo giorno: sempre in ritardo su schiere di infallibil­i e ironiche nonne. E per quello che ne posso sapere, è pure possibile che quel vagabondo puzzolente fosse il Baco in persona, apparso a salutare il suo ultimo seguace come gli dèi di Omero si accompagna­vano ai mortali indossando le più imprevedib­ili spoglie.

Arrossisco a confessarl­o, come un ragazzino io mi auguravo che tutto fosse vero, che tutto andasse in malora

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