«Mio nonno, il presepe e i lumini con i gusci di lumaca»
Il mio Natale cominciava presto, ai primi di dicembre. In quei giorni, dopo la scuola e i compiti a casa, prima dell’imbrunire, salivo sull’argine del fiume, poi scendevo giù tra i cespugli, i salici e le cannucce a pelo d’acqua: lì raccoglievo il muschio più folto.
Il nonno paterno, con sassi e pezzi di mattone creava le alture del presepe, coi frammenti di uno specchio lo stagno e lassù, sotto un rilievo, posizionava la capanna con la mangiatoia ancora vuota perché il bambinello non era ancora arrivato, ma con Maria e Giuseppe già adoranti. Tutto intorno metteva i pastorelli, le pecore, le donne affacciate alle case in attesa della Lieta Novella, qualche artigiano, le palme e i cammelli ecc: quello che avevamo in casa e ciò che nel tempo ero riuscito a comprare con la paghetta — molto «etta», quando c’era — della domenica. I Re Magi, ovviamente, rimanevano incartati: sarebbero venuti all’epifania, perché il loro turno non era ancora arrivato. Quello materno mandava un ramo del grande pino che cresceva a casa sua e che, sopra il presepe, avrebbe fatto da abete di Natale. Mia madre lo fissava ben bene con la base dentro un barattolo pieno di ghiaia per fare da contrappeso, lo mimetizzava col muschio, vi aggiungeva un po’ di addobbo appendendo dei palloncini di vetro colorato, delle trecce luccicanti e le immancabili stelle dorate che conservava in una scatola. La magia arrivava la sera quando il nonno accendeva i lumini. Erano dei gusci di lumaca che cercavo sotto le pietre e che lui riempiva con una goccia d’olio, vi immergeva uno stoppino e poi l’accendeva. L’elettricità non era ancora arrivata a casa nostra. Una cosa ancora: ero felice.