Passione Zagor
Avventure in sfrenata libertà tra la Patagonia e il West Anche contro gli extraterrestri
Tra le molte meraviglie che si mescolano nell’infanzia, un’unica spietata fregatura: hai così tanta voglia di correre e di esplorare, ma senza un adulto non puoi andare da nessuna parte. Devi affidarti a genitori e parenti che ti portino in giro, oppure aggrapparti agli eroi dei fumetti verso i mille mondi dell’avventura.
Infatti, quand’ero piccolo, aprire un Tex era come salire sul camion del nonno, mentre Zagor era un salto sull’ape dello zio Aramis: due viaggi magnifici, eppure così diversi tra loro.
Col nonno sapevo già dove si andava, non serviva voltarmi al fascio di canne e mulinelli là dietro per capire che ci aspettava una giornata di pesca. Quella era la sua sola, enorme passione, e se gli dicevi che era un grandissimo pescatore lo offendevi, perché il nonno era il più grande di tutti, campione provinciale di pesca alla carpa e regionale alla tinca, da dodici anni senza interruzione: il babbo e la mamma ancora dovevano conoscersi, e lui già tirava fuori dal lago Massaciuccoli bestie grosse come motorini.
E proprio al Massaciuccoli andavamo sempre, precisi alle cinque di mattina, prima che quello sfaticato del sole spuntasse di là dalle cannelle. Con la pastura e le lenze pronte, potevo star sicuro che ci saremmo divertiti tanto perché il nonno avrebbe preso un sacco di pesci e io pure, se gli davo retta. Come Kit Carson, Tiger Jack e gli altri pard che hanno la fortuna di cavalcare accanto a Tex, nelle valli smisurate del West, dove dietro rocce e cactus li aspettano mille insidie differenti, ma accomunate dal fatto che Tex sa sempre come affrontarle.
Quando invece andavo in camera dei miei, e dalla pila sul comodino del babbo prendevo un albo di Zagor, ecco che mi pareva di partire con l’ape dello zio Aramis.
A che ora non lo sapevo, ma sempre più tardi di quando aveva detto lui, e dove andavamo era un mistero per entrambi: lo zio arrivava in un nuvolone di fumo, apriva lo sportello e mi faceva spazio buttando per terra cartoni e pezzi di plastica e ferro, poi restavamo un attimo a guardare davanti a noi, oltre lo stretto del parabrezza, l’infinito orizzonte delle possibilità.
E proprio questo succede quando apri uno Zagor: si parte dalla sua capanna tra le paludi nella foresta di Darkwood, ma dopo due pagine puoi ritrovarti ovunque, nelle praterie americane o nei gelidi boschi del Nord, in Sud America o in Groenlandia, in Scozia, in Africa o al Polo Sud. A fronteggiare pistoleri o indiani arrabbiati, ma pure vichinghi, vampiri e lupi mannari, mostri marini, robot assassini o extraterrestri metà animali metà vegetali. Perché
Zagor è questo: libertà, sfrenata libertà. Non conosce la paura e la noia, ma nemmeno il rigore che domina le gloriose imprese di Tex.
Proprio così lo voleva il suo creatore Sergio Bonelli, figlio di Gianluigi che aveva dato vita al ranger senza macchia, icona fulgida ed eterna dell’immaginario italico. Stavano iniziando gli anni Sessanta, e una nuova generazione di lettori aveva voglia di ritrovarsi in un fumetto più simile a lei. Lo sapeva bene Sergio, che a ventinove anni si è inventato il personaggio che avrebbe desiderato leggere.
Zagor, abbreviazione di Zagor-te-nay, che nella lingua degli indiani Algonchini significa «Lo spirito con la scure». Ma non è mica vero: dopo tanto studiarci, il nome gli è venuto mentre tornava a Milano sull’autostrada del Sole. Dal nulla, quel sole gli ha regalato un’illuminazione improvvisa, cinque lettere una dietro l’altra, un suono potente e insieme esotico, la magnifica Z iniziale da disegnare come un lampo in copertina: non serviva altro.
Cioè, sì, ci voleva un altro giovane, che sapesse prendere la sua idea e trasportarla con l’inchiostro sulla carta. Allora ecco che dalla Liguria arriva Gallieno Ferri, disegnatore dal talento formidabile e dall’indole assai simile al personaggio che era chiamato a forgiare: avventuriero senza riposo, pioniere delle immersioni marine, instancabile canoista, appassionato velista fin quasi a novant’anni.
A quell’età Ferri navigava ancora, e ancora disegnava le storie di Zagor e ogni singola copertina dell’eroe a cui ha dato le proprie sembianze, per 55 anni dal 1961 fino al 2016, quando il Maestro Ferri ci ha salutati per esplorare gli azzurri mari dell’aldilà.
Ma intanto, grazie a lui e a Bonelli, generazioni di lettori sono cresciute seguendo Zagor dappertutto. Proprio come fa Cico, il tarchiato messicano goloso e fifone, che per stare dietro al suo amico si ritrova sempre in situazioni pericolosissime, dove è più facile lasciarci la pelle che mettere qualcosa sotto i denti.
Intorno a loro un universo di personaggi unici e stralunati, indiani guerrieri e stregoni dalle mistiche conoscenze, fuorilegge dal cuore buono, maldestri detective con la passione dei travestimenti, trapper poco avvezzi al vivere civile ma inconsapevoli filosofi. Figure poetiche e profonde come Wandering Fitzy, stupendo padre adottivo dello Spirito con la scure, o il commovente Digging Bill, che passa la vita a scavare col sogno di scoprire finalmente un tesoro: quando arriva al fondo dell’ennesima buca senza trovare niente, si dispera assai, ma intanto pianta già la sua vanga in un nuovo terreno, un nuovo sogno.
Contro di loro, una schiera di cattivi altrettanto fiammeggianti, come il mago druido Kandrax che vuole creare un impero celtico in America, il vampiro Bela Rakosi, lo scienziato pazzo Hellingen e i terribili Akkroniani, alieni che si ostinano a insidiare la Terra con la loro tecnologia prodigiosa, sempre rispediti sul loro pianeta dalla scure di Zagor, che è un sasso legato in cima a un bastone.
Insomma, quanto è bello salire sul camion del nonno ed essere sicuro che andrai a pesca e tirerai su tanti pesci giganteschi. Ma è altrettanto emozionante saltare a bordo e non avere idea di dove finirai, solcando il grande mistero sull’ape dello zio Aramis insieme a Zagor, a Cico e a tutta la sgangherata, travolgente meraviglia che la vita ti regala, se smetti di organizzare ogni passo e ti ci tuffi a braccia aperte, per stringerla tutta quanta.