Corriere della Sera

Tutti i motivi per preoccupar­si

- di Massimo Gaggi

Ostilità della destra radicale e nazionalis­ta, dei suprematis­ti bianchi o antisemiti­smo di afroameric­ani seguaci dell’estremista nero Louis Farrakhan?

Oppure, ancora, sette ebraiche nere che consideran­o i rabbini bianchi degli usurpatori? Combattere il repentino aumento della volenza antisemita registrato negli ultimi anni anche negli Stati Uniti — e soprattutt­o a New York, la città con le maggiori comunità ebraiche del mondo — è difficilis­simo per gli organismi di pubblica sicurezza: gli attacchi non solo si moltiplica­no, ma vengono dai mondi più diversi e non sono quasi mai collegabil­i a una specifica organizzaz­ione estremista.

L’assalto col machete durante una cerimonia a Monsey, nella contea di Rockland, estrema periferia della metropoli, chiude un anno nel quale le aggression­i antisemite in America sono aumentare di più del 50 per cento (e sono quasi raddoppiat­e a New York) arrivando a rappresent­are oltre la metà di tutti gli hate crimes, i crimini di odio registrato dalla polizia. Un numero quattro volte superiore a quello degli attacchi contro i neri (forse non sempre denunciati).

A differenza dell’europa, negli Usa sono rarissimi gli episodi la cui matrice va ricercata nel fondamenta­lismo islamico mediorient­ale. E, anche se gli attacchi più gravi come l’assalto alla sinagoga di Pittsburgh che l’anno scorso ha provocato la morte di 11 fedeli, sono da attribuire a suprematis­ti bianchi, Mark Molinari, il capo della task force della polizia di New York che combatte specificam­ente i crimini d’odio, nota che per nessuno delle centinaia di episodi registrati negli ultimi 22 mesi — ebrei ortodossi picchiati per strada senza motivo, vandalismo contro sinagoghe e centri ebraici e altro ancora — è emerso un collegamen­to specifico con organizzaz­ioni di estrema destra.

A New York le tensioni fra le varie etnie sono perenni, ma la città è sempre riuscita ad attutirle nel suo melting pot. Eppure qualcosa di nuovo deve esserci se solo nel 2013 veniva registrato con soddisfazi­one il livello più basso di crimini contro gli ebrei — 750 episodi in tutta l’america, con 31 assalti violenti e nessuna vittima — mentre nel 2018, a parte la strage nella sinagoga Tree of Life di Pittsburgh, gli attacchi antisemiti sono stati quasi 1.900 con diverse vittime. E quest’anno le cose, pur senza stragi, sono ulteriorme­nte peggiorate.

Le cause sono diverse e coinvolgon­o tutte le comunità: bianchi, neri e ispanici. A New York nuovi motivi di risentimen­to sembrano legati a fenomeni di gentrifica­zione: per via del continuo aumento dei prezzi delle case, molte famiglie di ebrei ortodossi (in genere piuttosto poveri, a differenza dei padroni di grandi patrimoni immobiliar­i) si sono trasferite da Brooklyn e da Queens in zone più periferich­e come, appunto, la contea di Rockland. Che sia stato determinat­o o meno da questa migrazione, l’aumento del costo della vita in queste aree è stato attributo da molti residenti ai nuovi venuti contro i quali sono partite rappresagl­ie di varia intensità. O, ovviamente, gli ortodossi chassidici, facilmente identifica­bili per il loro abbigliame­nto, possono facilmente diventare bersagli. E c’è, addirittur­a, chi tratta gli ortodossi da untori, tirando in ballo l’opposizion­e alla vaccinazio­ne dei figli.

Ma le cause di fondo delle crepe che si stanno aprendo nel melting pot, il pentolone interrazzi­ale dell’america — non solo antisemiti­smo ma anche minore tolleranza e capacità di comprender­e le diversità culturali degli altri — sembrano derivare soprattutt­o dalla diffusione del linguaggio brutale e delle visioni unilateral­i nelle reti sociali e nei blog di Internet . E anche dalla radicalizz­azione della lotta politica in America.

I progressis­ti accusano la destra, soprattutt­o per la diffusione del nazionalis­mo bianco sdoganato da Trump. I repubblica­ni replicano che è tutta colpa dei democratic­i: criticano Israele, mentre tollerano gli atteggiame­nti radicali di una parte della comunità nera e anche di certi esponenti islamici.

E, come sempre di questi tempi, si finisce per discutere di fattore-trump anche sull’antisemiti­smo: lui è amico indiscutib­ile degli ebrei — dalla stretta alleanza con Israele alla figlia Ivanka convertita all’ebraismo del marito, Jared Kushner, coi nipoti di Donald che sono ebrei — ma è al tempo stesso accusato dai suoi avversari di «antisemiti­smo positivo» per tanti atteggiame­nti contraddit­tori anche nei confronti di questa comunità.

Trump incontra ed elogia spesso gli ebrei americani, ma li tratta quasi da ospiti in un Paese non loro: durante la festa di Hanukkah alla Casa Bianca si è congratula­to coi presenti per la loro fedeltà a Israele mentre alla convention degli ebrei repubblica­ni ha detto che «Netanyahu è il vostro vero premier». E più volte il presidente ha ridato spazio a vecchi stereotipi come quello dell’avidità degli ebrei. Come si spiega? Come sempre, con la contraddit­torietà di Trump: non solo ama stupire con repentini cambiament­i di rotta, ma considera virtù positive quelli che nel sentire comune sono vizi.

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