Esercito saldo, classi medie escluse La rivoluzione a metà dell’egitto
Adifferenza di altri libri sul tema, L’egitto tra rivoluzione e controrivoluzione (il Mulino) non è dedicato ai «martiri» — sottolinea nell’introduzione Gianni Del Panta, ricercatore dell’università di Siena — perché una dedica così «contribuirebbe a creare un immaginario falsificato del processo reale» degli eventi. L’autore respinge l’idea che il volere degli esseri umani «basti per cambiare una società e le sue storture» e osserva che «uno scoppio rivoluzionario non attesta il dinamismo della psiche umana ma il suo innato conservatorismo»: una rivoluzione è «tanto più probabile quanto maggiore è l’incapacità di una comunità di mostrarsi dinamica e ricettiva di fronte ai cambiamenti». Sono le «condizioni materiali, non le aspirazioni ideali» a spingere le masse in strada nel «tentativo disperato di farla finita con un sistema che le costringe in una vita non più degna». Né lo sbocco democratico è da considerarsi l’esito naturale di una rivoluzione. Anzi, è il meno probabile. «L’eccezione è la Tunisia, non la mancata democratizzazione in Egitto».
Il volume esplora genesi, svolgimento e fallimento dei moti di piazza Tahrir. Perché «una rivoluzione tanto forte come movimento» ha «raccolto tanto poco in termini di cambiamento»? Il golpe di Al Sisi (2013) ha chiuso la finestra di opportunità apertasi con la caduta di Mubarak nel 2011, determinando l’instaurarsi di una dittatura militare; fatale è stata l’assenza di «strutture alternative di potere dal basso» e la «non disintegrazione degli apparati statali». Ma ciò non significa che la Primavera araba non abbia cambiato nulla. Oggi il peso dell’esercito, che è anche una frazione della classe capitalista, è cresciuto; l’esclusione delle classi medie è destabilizzante. Inoltre «milioni di donne e di uomini sono stati pervasi dalle aspirazioni emancipatore della rivoluzione»: la sua memoria, nonostante il regime cerchi di rimuoverla, «arde viva ed è pronta a riesplodere».