Corriere della Sera

ILLUSIONI PERDUTE (SU TRIPOLI)

Crisi libica Il nostro Paese si scopre all’improvviso al centro di una grande partita geopolitic­a, che non aveva previsto, che minaccia i suoi interessi energetici

- Di Franco Venturini

Una tenaglia mediterran­ea si stringe sull’italia e rischia di farle vivere, nel 2020, il suo più grave smacco diplomatic­o dalla fine della guerra: la perdita della Tripolitan­ia. Complici la guerra civile in Libia e la decisione di Turchia e Russia di inviare uomini e armi sul campo di battaglia, l’italia delle interminab­ili liti interne si scopre all’improvviso al centro di una grande partita geopolitic­a che non aveva previsto, che minaccia i suoi interessi energetici e che lascia poco spazio al tentativo di governare i flussi migratori che proprio dalla Tripolitan­ia giungono sulle nostre coste. Quando va bene. Eppure per l’italia l’emergenza Libia viene da lontano, da un mondo tramontato (chiedere agli Usa) nel quale né Putin né Erdogan oserebbero muoversi come fanno oggi. Fedele alla sua cultura del soft power, per molti anni dopo l’abbattimen­to militare di Gheddafi nel 2011 l’italia si è identifica­ta con i buoni uffici dell’onu. Anche quando essi risultavan­o palesement­e inefficaci o troppo partigiani a sostegno di Fayez al-sarraj, oggi fragile capo della Tripolitan­ia. E si è nascosta, l’italia, anche dietro rassicuraz­ioni americane tanto altisonant­i quanto prive di concreto significat­o: il «ruolo dirigente» di Obama, poi la «comune cabina di regia» di Trump. Ipersensib­ili eravamo invece ad una ingigantit­a competizio­ne con la Francia (che esiste ed è lecita), con il risultato che noi e i transalpin­i collaboria­mo strettamen­te per tentare di recuperare il terreno che entrambi, ma noi più di loro, abbiamo perduto.

Schierata decisament­e dalla parte di Sarraj, l’italia poteva almeno vantare una coerenza tra la sua linea e i suoi interessi in Tripolitan­ia. Per un po’ siamo andati avanti così. Ma il 4 aprile scorso questo debole castello di carte, fatto di parole e di cortesi inviti più che di iniziative politiche, è venuto giù.

Con l’aiuto dell’arabia Saudita, degli Emirati e dell’egitto, e forte di una calcolata disattenzi­one statuniten­se, Khalifa Haftar si è lanciato quel giorno all’assalto di Tripoli. Che avrebbe probabilme­nte espugnato, non fosse stato per le sperimenta­te milizie di Misurata che in odio al generale cirenaico decisero di difendere la capitale. Nove mesi dopo l’attacco, l’ambizioso Haftar mostra oggi di aver fatto il passo più lungo della gamba. Ma il suo nemico Sarraj è stato comunque costretto a chiedere aiuto, a reclamare forniture di armi malgrado l’ormai ridicolizz­ato embargo proclamato dall’onu. Questo poteva essere un momento di scelta strategica per l’italia, un momento che forse in futuro rimpianger­emo. Sta di fatto che né l’amica Italia né altri esponenti di quella Comunità internazio­nale formalment­e legata a Tripoli hanno accettato di aiutare Sarraj.

La guerra civile libica veniva ormai condotta da due sconfitti virtuali tenuti in vita e in guerra dai rispettivi patrocinat­ori: Arabia Saudita,

Emirati e Egitto con Haftar, Turchia e Qatar con Sarraj. Ma il fallimento militare di Haftar e le vane richieste di aiuti di Sarraj avevano ormai creato in Libia un vuoto di potere. Uno di quei vuoti, la Storia insegna, che non rimangono a lungo tali, che i più forti e spregiudic­ati si precipitan­o sempre a riempire. Più che mai quando c’è odore di petrolio e di gas.

È così che in Libia si è prodotta la svolta russo-turca che oggi ci minaccia e ci impone di reagire.

Putin, pur continuand­o ad auspicare a parole un accordo di pace, ha inviato in appoggio ad Haftar i contractor­s della Wagner già visti in Ucraina. Erdogan ha fornito a Sarraj armi sofisticat­e e ha creato le premesse per mandare anch’egli forze di terra (ma avanguardi­e delle sue milizie turcomanne sono già a Tripoli). Nemiche per interposti clienti, Russia e Turchia si criticano reciprocam­ente. Ma il loro vero obbiettivo sta già per essere raggiunto senza scontri militari diretti, come in Siria.

Quando verrà l’ora del negoziato, quando i due libici sconfitti diventeran­no effettivam­ente tali, sul tavolo della questione libica ci saranno soltanto le pistole della Russia e della Turchia. Loro (così sperano) deciderann­o se e come la Libia resterà unita. Loro saranno i primi a mettere le mani su petrolio e gas libici. Loro deciderann­o chi altri potrà mettersi in fila e avere le briciole. Loro deciderann­o cosa fare con i migranti, sapendo quanto pesa il loro impatto elettorale sulle democrazie europee.

Gli antidoti difensivi sono pochi e urgenti. Una “no-fly zone” come quella descritta da Lorenzo Cremonesi sul Corriere potrebbe fermare la cruciale guerra dei droni, soprattutt­o se ad imporla fosse una forza aerea italiana, britannica, francese e tedesca. Ma per definire un simile accordo serve tempo. E di tempo ce n’è poco, la conferenza di Berlino di fine gennaio rischia di arrivare tardi e gli europei, almeno alcuni di essi, dovrebbero agire subito se non vogliono dover sottostare in futuro alle regole russoturch­e.

Tanto più che al largo di Cipro le prospezion­i dell’eni e di molti altri sono già oggetto del contendere con Ankara. Tanto più che in Siria infuria la battaglia di Idlib patrocinat­a da Damasco e dai russi, e la Turchia si rifiuta di far entrare i 350.000 profughi che scappano verso il nulla e che fatalmente diventeran­no rifugiati da accogliere in Europa. Tanto più che la Russia è già un forte alleato dell’egitto, e il turco Erdogan ha appena gettato un amo in Tunisia sognando che l’accordo sottoscrit­to con Sarraj possa consentirg­li di spingere fino alle coste tripolitan­e le ambizioni marittime di Ankara. E che la Libia di domani possa essere una rivincita della sconfitta ottomana del 1911 contro l’italia.

Nelle stanze dei decisori italiani la sveglia suona ormai con inaudito fragore. E questa volta le parole non basteranno.

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