ESPLORARE LA FRAGILITÀ DELLA VITA
I pensieri di Rigoni (Elliot)
«In generale io credo che nella storia del pensiero si possano individuare due genealogie e due tradizioni: una è quella dei filosofi, l’altra è quella dei saggi». Così scrive Mario Andrea Rigoni in uno dei testi che compongono il suo libro più recente, Fondi di cassetto (Elliot edizioni, pagine 108, 13). La definizione di «saggio», il cui pensiero nasce dall’esperienza e tocca «le verità permanenti dell’uomo e della vita», in contrapposizione al filosofo costruttore di sistemi, è qui riferita a Emil Cioran, l’incontro con il quale viene rievocato in alcune vivide pagine; ma potrebbe applicarsi altrettanto bene allo stesso Rigoni, soprattutto alla sua produzione aforistica, che ritroviamo in alcune parti di questo volume.
L’elegante understatement del titolo non deve trarre in inganno: tra i «fondi di cassetto» il lettore può scoprire infatti vere e proprie gemme di esattezza espressiva e intellettuale, un’interrogazione condotta per squarci, eppure serrata, di morte e vita, male e bene, e di quell’immenso enigma che è la bellezza, la quale forse non salverà il mondo, come voleva Fëdor Dostoevskij, «ma è la sola obiezione alla sua nullità e il solo valore religioso della sua esistenza».
Nulla di più eterogeneo di questo libro, in apparenza: alle penetranti osservazioni metafisiche e alle annotazioni «di costume» (Rigoni sembra aver studiato con profitto alla scuola dei grandi moralisti francesi), si aggiungono una sezione sulla Grecia, nella quale mi sembra centrale il confronto con Platone, e un’altra di «impressioni giapponesi», dove il diario di viaggio diventa meditazione sulle differenze spirituali tra Oriente e Occidente e sulla fascinazione del «vuoto» taoista, così sottilmente diverso dal Nulla di Giacomo Leopardi, del quale lo stesso Rigoni è tra i maggiori studiosi a livello internazionale; e poi, appunto, il ricordo commosso di due amici, Emil Cioran e Enzo Turolla; e una parte finale, «Vintage», dove l’aforisma si trasfigura in poesia. Ma forse non è un caso che proprio in questo eclettismo di superficie si esprima nel modo più compiuto la personalità dell’autore: la sua asistematica «saggezza», la sua sconfinata curiosità intellettuale, il suo senso incrollabile dello stile come strumento principe per inseguire quella che altri, non lui, definirebbero pretenziosamente «la verità».
Lo sguardo di Rigoni è impietoso, ma al tempo stesso abitato da una pietà profonda di cui lui stesso sembra voler fare avvertito il lettore. «Non bisogna confondere la cattiveria intellettuale con la cattiveria morale: i doveri del pensiero non sono i doveri della vita»; e altrove, un fulmineo confronto tra il marchese de Sade e Leopardi, i quali, partendo da un presupposto simile, «l’empia criminalità della natura», ne traggono conclusioni opposte: da un lato la legittimazione della crudeltà, dall’altro la necessità della solidarietà umana. La differenza tra i due, commenta Rigoni, «non stava tanto nella logica quanto nel cuore»; e proprio nel «cuore» sta a mio avviso l’abissale differenza tra queste pagine e il nichilismo compiaciuto di altri autori. Sta in un’attenzione quasi umile verso la vita, tanto rigorosamente posta sotto accusa come idolo metafisico quanto amata nella sua fragilità, rispettata nelle sue minime manifestazioni: «Occorrerebbe che nell’astratta rete concettuale lanciata dall’aforisma cadesse non solo un’idea, ma anche un uccello, un ragno o una farfalla»… Una farfalla è caduta, in questo libro; e credo che il lettore attento possa avvertire, pagina dopo pagina, il battito delicato e tenace delle sue ali.