L’obiettivo auspicato di una vera ripartenza
L’obiettivo di una vera ripartenza
A chi gli chiedeva quale fosse un vizio tipicamente italiano, Carlo Emilio Gadda rispondeva: «Il denigramento di noi stessi». Sergio Mattarella non lo ha citato, nel messaggio di fine anno, ma per come ha parlato è chiaro che la pensa allo stesso modo. In effetti, un conto è coltivare l’autocritica in maniera magari spietata, un altro conto è farsene ossessionare e crogiolarsi nei guai di cui siamo corresponsabili, come ci capita da molto tempo. Perché in questo caso il rischio è di riconoscersi uniti solo in quanto concittadini di un Paese depresso, esausto e impaurito. In una parola: incapace di reagire.
Ecco perché il presidente ha chiesto a tutti di cambiare prospettiva, se vogliamo costruire una vera ripartenza. Infatti, ha avvertito, «la fiducia con cui si guarda, da fuori, al nostro Paese, deve indurci ad averne di più in noi stessi, per dar corpo alla speranza in un futuro migliore». È un gioco retorico, quello di mutare il punto di vista (sostituendoci a chi ci osserva da lontano), che gli serve per proporre una differente narrazione e concentrarsi su «quell’italia, spesso silenziosa, che non ha mai smesso di darsi da fare», che va avanti con «spirito di solidarietà» e che sa procedere «insieme». Una comunità assai meno egoista, tremebonda e incattivita, dunque migliore di come ce la raccontiamo ogni giorno.
Certo, per avvalorare questo ritratto positivo del Paese Mattarella ha sfrondato dal suo discorso l’elenco dei guai che ci affliggono, pur citandoli uno per uno (disoccupazione, divario Nord-sud, disuguaglianze, tutela dell’ambiente, giovani in fuga, permeabilità dei social a veleni e fake news), e suggerito l’antidoto della classica gerarchia di valori. In primis la fiducia, che per consolidarsi ha bisogno del «buon funzionamento delle pubbliche istituzioni». E poi la «cultura della responsabilità», la «coesione sociale» e soprattutto «il senso civico», che — rimarca con il pensiero rivolto ai troppi che seminano rancore — è una «virtù da coltivare», in quanto ci indica «il rispetto delle esigenze degli altri e del rispetto della cosa pubblica» e «argina aggressività, prepotenze, meschinità, lacerazioni delle regole della convivenza».
Un capitolo nella sua pedagogia civile, questo quinto discorso di fine anno, che è molto più politico di quanto sia parso a qualcuno, tentato di liquidarlo come «troppo buonista» ed «evanescente». Un errore confutato da un paio di esempi. Il primo viene dall’evocazione della «stagione dei diritti e dei doveri», attraverso la quale mette in contrapposizione le due Italie, ciò che è un trasparente richiamo ad Aldo Moro, da sempre figura di riferimento per il capo dello Stato. Secondo esempio: il cenno alle «gravi crisi aziendali» che mettono a rischio migliaia di posti di lavoro e ci ricordano «l’esigenza di rilanciare il nostro sistema produttivo». Traduciamo: il governo non si preoccupi unicamente di risolvere le crisi aperte, come quelle dell’ex Ilva o di Alitalia, perché così si limiterebbe alla semplice e pur doverosa manutenzione. Si ponga piuttosto l’obiettivo di rilanciare l’intero sistema industriale, perché è di questo che ha bisogno il Paese.
E c’è infine l’abrasiva allusione che Mattarella ha indirizzato ai mass-media e soprattutto alla tv di Stato. Il «ruolo fondamentale» assegnato loro, e «in particolare al nostro servizio pubblico» (la Rai, appunto), dovrebbe essere per lui quello di rendere «conosciuto, raccontato, condiviso e disponibile a tutti il patrimonio di idee ed energie per costruire il futuro… abbiamo bisogno di preparazione e competenze». Sottinteso del presidente: quel compito non viene assolto. Si preferisce mettere in scena risse e sfilate dei potenti di turno, con il risultato che «ogni tanto si vede affiorare la tendenza a prender posizione ancor prima di informarsi».