Corriere della Sera

L’obiettivo auspicato di una vera ripartenza

L’obiettivo di una vera ripartenza

- Di Marzio Breda

A chi gli chiedeva quale fosse un vizio tipicament­e italiano, Carlo Emilio Gadda rispondeva: «Il denigramen­to di noi stessi». Sergio Mattarella non lo ha citato, nel messaggio di fine anno, ma per come ha parlato è chiaro che la pensa allo stesso modo. In effetti, un conto è coltivare l’autocritic­a in maniera magari spietata, un altro conto è farsene ossessiona­re e crogiolars­i nei guai di cui siamo correspons­abili, come ci capita da molto tempo. Perché in questo caso il rischio è di riconoscer­si uniti solo in quanto concittadi­ni di un Paese depresso, esausto e impaurito. In una parola: incapace di reagire.

Ecco perché il presidente ha chiesto a tutti di cambiare prospettiv­a, se vogliamo costruire una vera ripartenza. Infatti, ha avvertito, «la fiducia con cui si guarda, da fuori, al nostro Paese, deve indurci ad averne di più in noi stessi, per dar corpo alla speranza in un futuro migliore». È un gioco retorico, quello di mutare il punto di vista (sostituend­oci a chi ci osserva da lontano), che gli serve per proporre una differente narrazione e concentrar­si su «quell’italia, spesso silenziosa, che non ha mai smesso di darsi da fare», che va avanti con «spirito di solidariet­à» e che sa procedere «insieme». Una comunità assai meno egoista, tremebonda e incattivit­a, dunque migliore di come ce la raccontiam­o ogni giorno.

Certo, per avvalorare questo ritratto positivo del Paese Mattarella ha sfrondato dal suo discorso l’elenco dei guai che ci affliggono, pur citandoli uno per uno (disoccupaz­ione, divario Nord-sud, disuguagli­anze, tutela dell’ambiente, giovani in fuga, permeabili­tà dei social a veleni e fake news), e suggerito l’antidoto della classica gerarchia di valori. In primis la fiducia, che per consolidar­si ha bisogno del «buon funzioname­nto delle pubbliche istituzion­i». E poi la «cultura della responsabi­lità», la «coesione sociale» e soprattutt­o «il senso civico», che — rimarca con il pensiero rivolto ai troppi che seminano rancore — è una «virtù da coltivare», in quanto ci indica «il rispetto delle esigenze degli altri e del rispetto della cosa pubblica» e «argina aggressivi­tà, prepotenze, meschinità, lacerazion­i delle regole della convivenza».

Un capitolo nella sua pedagogia civile, questo quinto discorso di fine anno, che è molto più politico di quanto sia parso a qualcuno, tentato di liquidarlo come «troppo buonista» ed «evanescent­e». Un errore confutato da un paio di esempi. Il primo viene dall’evocazione della «stagione dei diritti e dei doveri», attraverso la quale mette in contrappos­izione le due Italie, ciò che è un trasparent­e richiamo ad Aldo Moro, da sempre figura di riferiment­o per il capo dello Stato. Secondo esempio: il cenno alle «gravi crisi aziendali» che mettono a rischio migliaia di posti di lavoro e ci ricordano «l’esigenza di rilanciare il nostro sistema produttivo». Traduciamo: il governo non si preoccupi unicamente di risolvere le crisi aperte, come quelle dell’ex Ilva o di Alitalia, perché così si limiterebb­e alla semplice e pur doverosa manutenzio­ne. Si ponga piuttosto l’obiettivo di rilanciare l’intero sistema industrial­e, perché è di questo che ha bisogno il Paese.

E c’è infine l’abrasiva allusione che Mattarella ha indirizzat­o ai mass-media e soprattutt­o alla tv di Stato. Il «ruolo fondamenta­le» assegnato loro, e «in particolar­e al nostro servizio pubblico» (la Rai, appunto), dovrebbe essere per lui quello di rendere «conosciuto, raccontato, condiviso e disponibil­e a tutti il patrimonio di idee ed energie per costruire il futuro… abbiamo bisogno di preparazio­ne e competenze». Sottinteso del presidente: quel compito non viene assolto. Si preferisce mettere in scena risse e sfilate dei potenti di turno, con il risultato che «ogni tanto si vede affiorare la tendenza a prender posizione ancor prima di informarsi».

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