L’aldiquà
Jang Ji-sung è entrata nello studio televisivo, ha indossato il visore e i guanti della realtà virtuale, poi ha cominciato a parlare con il silenzio e ad accarezzare il vuoto. Questo accadeva osservando la scena da fuori. Ma nel mondo in cui Jang era precipitata, quel silenzio e quel vuoto avevano assunto la voce e le fattezze di Nayeon, scomparsa a 7 anni dopo una leucemia. Il dio della tecnologia aveva ricreato un paradiso modellato sul prototipo del parco in cui madre e figlia avevano trascorso ore felici. Da fuori era straziante, per qualcuno forse inquietante, vedere la giovane donna commuoversi fino alle lacrime mentre si contorceva in mezzo al nulla pur di stringere l’ombra della sua bambina e soffiare sopra le candeline immaginarie di una torta di compleanno. Ma da dentro doveva essere tutta un’altra cosa. Un momento di sollievo, la realizzazione di un sogno.
Fa parte della natura di chi sopravvive cercare un contatto con chi non c’è più. L’aldilà è un mistero e da sempre anche un affare. Quello offerto dalla realtà virtuale non mi sembra peggiore o migliore di altri. Come tutto, a questo mondo, risponde a un bisogno. Dipende dall’uso che se ne fa. I saggi dicono che il dolore è una strada che va attraversata fino in fondo. Ma non c’è niente di male se lungo il tragitto ci si ferma in un punto di ristoro per togliersi la polvere dalle scarpe. L’importante, dicono sempre i saggi, è poi riprendere il cammino.