Istruzioni per fuggire da sé
La figlia di esuli antifranchisti lascia la Germania Est. Ma quasi senza sapere il motivo
«JEsce domani il romanzo «Cose che si portano in viaggio» (Guanda), esordio della spagnola Aroa Moreno Durán
ohannes mi accompagnò fino a una strada da casa. Prima di andarsene, mi bloccò e fece un passo in avanti. Si strinse a me e slacciò la cintura del mio cappotto. Mi cinse con una mano la vita, umida e calda per la camminata veloce, e mi sfiorò il collo con la bocca. E in quel paio di minuti di stupore e letargo capii che l’avrei seguito. Così dove altri avevano rischiato la vita per un’idea, per un’altra vita, migliore o peggiore della nostra, o solo per sapere com’era la luce che sorgeva ogni giorno di là dal nostro muro, io avrei corso lo stesso pericolo ma sull’onda dell’istinto più irragionevole».
Siamo nell’autunno 1971 a Berlino Est, la città simbolo di tutte le differenze del mondo. Katia, la «figlia del comunista», protagonista di Cose che si portano in viaggio di Aroa Moreno Durán (in uscita per Guanda), passa «dall’altra parte» non sapendo quasi bene perché. Se ne va grazie a documenti contraffatti con cui riesce a fuggire in Cecoslovacchia e di lì in Baviera, nel segreto più totale, senza salutare il padre (esule antifranchista che aveva trovato una diversa, difficile patria nella Germania orientale del dopoguerra) e la madre (che aveva raggiunto il marito), nascondendo tutto anche alla sorella. Le istruzioni per la fuga sono annotate in una pagina di quaderno a righe consegnatagli da Johannes, il ragazzo dell’ovest di cui si era innamorata come per l’abbaglio di una dolce, improvvisa allucinazione. Ma in quel foglietto c’è soprattutto «la fine di tutto quello che aveva conosciuto».
Questo non vuol dire che Cose che si portano in viaggio (vincitore nel 2017 del Premio El Ojo Critico de Narrativa) sia una sorta di Il cielo diviso al contrario, il famoso romanzo di Christa Wolf in cui Rita decide di non restare con il fuggitivo Manfred e sceglie di tornare a Est. L’itinerario di Katia è ancora più sofferto. I fogli quadrati del calendario, dal 1956 al 1992, si staccano a uno a uno ma non vengono dimenticati nel cestino: il Bildungsroman che si intreccia con la conoscenza di un mondo «positivo», le illusioni che tentano di resistere alla sconfitta dell’ideologia, il mistero attraente e seduttivo della modernità tanto vicina quanto di fatto lontana, la rottura improvvisa con l’esistenza quotidiana, il radicamento in un ordine troppo debole per affrontare le pressioni del disamore. E il muro cade, in un giorno di ottobre, proprio durante un viaggio in Spagna per cercare le tracce del passato. A vincere, però, alla fine, è il «rancore sordo», in una piccola città tedesca, per uno strappo che appare ogni giorno più innaturale e per un sentimento oscuro che assomiglia alla nostalgia di affetti più profondi: «C’era sempre qualcosa dentro, nella pancia, nel cuore, lì a dirmi che avevo puntato tutto quello che avevo, destabilizzando la vita mia e la vita di chi mi amava».
Ambientato in anni eloquenti, legati al dominio della storia sul destino degli individui, Cose che si portano in viaggio è in realtà una lezione sullo sradicamento, valida in ogni tempo e in ogni latitudine, ancora più efficace in un’epoca come la nostra dove lo sradicamento è diventato la regola che condiziona l’esistenza di un’umanità più ampia di quella che, una volta, cercava la libertà — non sempre trovandola — al di là della «cortina di ferro». Di fuga in fuga, è emozionante che tra queste pagine compaia la memoria di Anna Seghers (e del suo La settima croce, storia di un’evasione da un campo di concentramento nazista), di cui la giovane scrittrice spagnola, nata a Madrid nel 1981, non può non avere letto anche Transito: un libro incandescente che non a caso il regista tedesco Christian Petzold ha trasferito in uno scenario vicino ai giorni nostri.
Aroa Moreno Durán ci dice che il vissuto è spesso più importante della volontà, o dell’obbligo, di costruire il futuro. Non si può assolutamente ignorarlo, il vissuto: resiste, si dirama nei sentimenti, si inserisce nelle lacerazioni prodotte dal tempo. Conviene allora lasciare la parola a Rainer Kunze (il poeta tedesco orientale che fu costretto a lasciare il suo incarico universitario nel 1959, diventando meccanico, e uscì dalla Sed, il partito comunista, dopo l’invasione della Cecoslovacchia) e del quale sono riprodotti alcuni versi nel frontespizio di questo romanzo. Sentieri sensibili, scritta nel 1966 è però ancora più adatta alle sue atmosfere: «Sensibile/ è la terra sopra le fonti: nessun albero deve/ essere abbattuto, nessuna radice/ estirpata/ Le fonti potrebbero/ inaridirsi/ Quanti alberi sono/ abbattuti, quante radici/ estirpate/ dentro di noi».
Resta da parlare dello stile. È raro trovare tanta sicurezza in un esordio narrativo. Arrivata al romanzo dalla poesia (ha pubblicato due raccolte, Veinte años sin lápices nuevos e Jet lag ), Aroa Moreno Durán sceglie una prosa nitida, spaziosa. Trattiene il respiro, senza mai ansimare, e si volta indietro tra una breve frase e l’altra. Anche se non fosse stata lei stessa a citarla in un’intervista a «El País», il pensiero potrebbe correre senza paura di sbagliare a Ágota Kristóf e al suo Trilogia della città di K. «Quando chiamarono Theresa la mia prima figlia, non dissi nulla», racconta Katia dal suo esilio occidentale. Come nella scrittrice ungherese scappata in Svizzera — anche lei una donna senza patria — le parole diventano lampi che fendono la nebbia oscura della cattiveria umana. Un altro libro che «avrebbe voluto che fosse suo» è Lo stesso mare di Amos Oz, un testo struggente in equilibrio proprio tra romanzo e poesia. Lì c’è Rico David (ancora un fuggitivo), che ha lasciato a Tel Aviv la fidanzata Dita e se ne è andato in Tibet, dove «l’aria sottile deforma chissà come tutti i suoni» e «l’urlo più tremendo non arriva a spezzare la quiete e anzi, per così dire, l’accompagna».
Al contrario di quell’urlo, si può certamente dire che Cose che si portano in viaggio è destinato a spezzare la quiete di tutte le nostre solitudini.