Giovanni Minoli Ha inventato la soap opera più longeva: 5.440 puntate «“Un posto al sole” batte Pomigliano, si complimentò Umberto Agnelli»
P er la cruda legge secondo cui un padre mantiene dieci figli ma dieci figli non riescono a mantenere un padre, la Rai utilizza Giovanni Minoli, il più prolifico autore televisivo, solo su Radio 1, dove il lunedì e il venerdì, dalle 17.05 alle 18, conduce «Il mix delle cinque», versione dimezzata (solo sillabicamente) di «Mixer», uno dei suoi programmi tv più popolari. L’ex direttore di Rai 2, Rai 3, Rai Educational, Rai Storia e Rai Scuola ha un affaccio innovativo sul canale satellitare del National Geographic, il lunedì alle 20.40 con «Green leader»: «Mi aiutano Alessandra Cravetto e Ludovica Siani, nipote di Giancarlo, il cronista del Mattino ucciso dalla camorra». Altrimenti sarebbe scomparso dal video. Un paradosso per il conduttore di «La Storia siamo noi» e l’autore di «Un posto al sole», la prima e più longeva soap opera italiana, che dal 1996 a oggi ha totalizzato ben 5.440 puntate. E anche per il maggior dispensatore di posti al sole a sconosciuti esordienti: Milena Gabanelli, Massimo Giletti, Bianca Berlinguer, Gianfranco Funari, Myrta Merlino, Sveva Sagramola. In Vite da funamboli (Sandro Teti editore), Antonio Alizzi lo accosta a Eduard Limonov, Andrei Konchalovsky e Paolo Sorrentino.
Mi sembra in ottima compagnia.
«Non so se me la merito. Però mi riconosco nel titolo. La mia vita è un esercizio sul filo, anche se non improvvisato».
Il critico Sergio Saviane sosteneva che «la tv è la grande meretrice». Esagerava?
«No, diceva la verità. È seduttiva, dà piacere, ma illude moltissimo, perché poi ti molla e passa ad altro. È lei forte, non tu. Invece tutti quelli che la fanno pensano di essere forti loro. Quando li tolgono dal video, svengono, si ammalano, muoiono. Mi salvò da questa sorte il regista Carlo Vanzina, che sul lago di Como fu prodigo di consigli su come gestire il successo e l’insuccesso. Con “Mixer” ero al settimo piano: mi ritrovai spiaccicato al suolo. Andai nove mesi in Africa a sciacquarmi il cervello. Lì, in mezzo a gente che non mi conosceva, scoprii che Giovanni era più importante di Minoli. Ricucii i due pezzi della mia vita. Tornai a essere Giovanni Minoli».
Suo suocero Ettore Bernabei era direttore generale della Rai. La aiutò?
«Fu un’immensa fortuna conoscerlo: era un gigante della televisione. Ma anche un freno per la mia carriera».
Nel senso che non l’hanno promossa dg della Rai o almeno direttore della rete ammiraglia? Come se lo spiega?
«Forse sono troppo libero. Mi sono convinto che sia una buona ragione. Non ho mai avuto tessere di partito, solo una forte simpatia per Bettino Craxi, un riformatore. Ma quando dopo 16 anni uscì di scena ero ancora capostruttura di Rai 2, come al momento in cui lo conobbi».
Le rimproverano lo spot elettorale in forma d’intervista che gli fece nel 1987.
«Mi viene da ridere. Lo rifarei. Vada a rivederselo e faccia i confronti con l’oggi. Certo che era uno spot, però ci misi la mia faccia, non finsi che non lo fosse».
A Craxi la legava il culto di Giuseppe Garibaldi: suo bisnonno Ottavio Minoli finanziò l’eroe dei Due Mondi.
«Aiutò anche Giuseppe Mazzini, se è per quello. Ma io amo di più Cavour».
«Solo mille partirono da Quarto. Non ci sarebbe neanche l’italia se fosse stato per gli italiani», mi disse Craxi ad Hammamet un anno prima di morire.
«Quando si farà l’italia, sarà molto bello. Per ora non mi pare che ci sia».
Ha capito perché Teresa De Santis, direttore di Rai 1, è stata silurata?
«No, e lo ritengo irrilevante. La Rai sta perdendo totalmente la sua identità.
Il male di Viale Mazzini si chiama burocrazia. Cacciare i partiti? Lo impedisce la legge. Per il «Grande fratello» non servono gli imbecilli