Corriere della Sera

L’EUROPA SI DEVE PREPARARE A DIVENTARE MULTIETNIC­A

Noi e l’africa La popolazion­e africana è in forte crescita e cercare di alzare muri non ci servirà. Ma investimen­ti e creazione massiccia di posti di lavoro richiedono tempo

- Di Antonio Armellini

L’immagine dell’africa come una bomba a orologeria ha una forte presa; dinanzi allo spettro dello scontro epocale con una massa di migranti capace di stravolger­e i caratteri essenziali della civiltà europea, la risposta è spesso quella di alzare muri. Al di là del vantaggio politico di corto respiro di simili argomenti, c’è da chiedersi se la soluzione possa davvero essere solo quella dell’esclusione e di guerre di interdizio­ne dall’utilità inversamen­te proporzion­ale al costo.

Non che il problema non sia serio. La popolazion­e africana raddoppier­à da qui al 2050, oltre quattrocen­to milioni entreranno in età lavorativa nei prossimi dieci anni e ci saranno posti per meno di un terzo (ha calcolato Domenico Siniscalco); per gli altri la via continuerà ad essere quella della fuga. Per contrastar­e il calo demografic­o che mette in pericolo il mantenimen­to dei livelli di crescita e il benessere dei Paesi europei, sarà indispensa­bile ricorrere all’apporto di immigrati in numeri che, solo per l’italia, dovranno essere di centinaia di migliaia all’anno. Ad alto livello di specializz­azione, che tutti dichiarano di volere, ma anche non qualificat­i, da cui già dipende la sopravvive­nza di molti settori produttivi a partire all’agricoltur­a. Facendo emergere questi ultimi sarà fra l’altro possibile mettere fine allo scandalo di vederli abbandonat­i nelle mani delle mafie e trattati come schiavi perché «invisibili», quando sono davanti agli occhi di tutti. Le cifre di riferiment­o potranno variare, ma il problema è quello di una gestione intelligen­te di entrambi i flussi che, per quanto paradossal­e possa sembrare, sarà l’unico modo per proteggere la nostra way of life.

L’europa multietnic­a non è una realtà limitata agli ex colonizzat­ori, ma riguarda tutti i Paesi europei ed è la conseguenz­a del ribaltamen­to di rapporti storici di dipendenza economica e culturale, resa

Compensazi­one Per contrastar­e il calo demografic­o, in Italia sarà indispensa­bile ricorrere all’apporto di migliaia di immigrati

più difficile dalla crisi dei modelli di integrazio­ne tentati sin qui. Quello centralizz­atore della Francia, che cerca di fare di Vercingeto­rige parte della storia senegalese, ha prodotto l’inferno delle banlieues. Quello della convivenza separata del Regno Unito, in cui altrettant­e «tribù» autonome convivono accanto alla «tribù» britannica nel rispetto della Corona, non regge al di fuori del vecchio recinto del Commonweal­th. Quello scandinavo mostra crepe profonde nel solidarism­o egualitari­o cui si ispira. Quando i numeri erano scarsi, gli immigrati ril’italia cordavano a molti italiani i loro fratelli che avevano a loro volta dovuto emigrare e l’approccio era quello della carità cristiana; poi l’italia è cresciuta, da Paese di emigranti è diventata a sua volta Paese di immigrazio­ne; ci siamo scoperti più impreparat­i degli ex colonizzat­ori ad affrontare un problema di cui ignoravamo tutto e il passaggio dalla solidariet­à all’intolleran­za è stato rapido.

Tutto questo dimostra che l’integrazio­ne ha dei limiti inevitabil­i e che è indispensa­bile combinarla con investimen­ti per la creazione massiccia di nuovi posti di lavoro.

Equilibrio

Soltanto una gestione intelligen­te dei flussi ci permetterà di proteggere il nostro stile di vita

La conclusion­e dell’accordo dell’unione Africana per una zona di libero scambio panafrican­a (Acfta) apre prospettiv­e sin qui inimmagina­bili (come ha spiegato Danilo Taino sul Corriere); è solo un primo passo e resta da vedere se funzionerà davvero, ma per la prima volta si potrà parlare di un mercato integrato, ponendo fine alle storture per cui, ad esempio, per volare da un Paese all’altro è spesso necessario passare dalla vecchia capitale coloniale europea. Favorire questo processo è interesse comune: l’europa ha cominciato a muoversi e anche è presente; è necessario fare molto di più, anche per dare un argine alla presenza cinese che è sempre più arrembante e si va caricando di toni neocolonia­li.

«Aiutiamoli a casa loro» dunque? È bene capirsi. Parlare di «Piano Marshall per l’africa» non ha senso: allora si trattava di rimettere in piedi economie avanzate distrutte alla guerra, qui si tratta di creare una capacità economica dove non c’era. È una trasformaz­ione che richiederà ai Paesi Ue una revisione in profondità e una presa di coscienza non indolore: bisognerà spiegare, ad esempio, agli agricoltor­i francesi che la protezione della politica agricola comune non sarà più compatibil­e negli stessi termini, e rendere chiaro alle imprese europee che con lo sviluppo della loro capacità manifattur­iera, quelle africane passeranno da subfornitr­ici a competitor, sia pure in un mercato più ampio Non si tratterà di aggiustame­nti al margine e la retorica fa spesso velo alla realtà.

Promuovere in Africa una crescita capace di invertire il ciclo di una emigrazion­e struttural­e richiederà anni, se non decenni. Nel frattempo, gli immigrati continuera­nno ad arrivare e — a parte gli specchiett­i per le allodole di respingime­nti di massa o simili — la gestione del problema non potrà essere affrontata solo a livello nazionale. Si tratta di un’eredità storica dell’europa ed è alla Ue che tocca farvi fronte: coinvolger­à in tempi e modi diversi tutti i suoi membri e sarebbe saggio pensarci insieme per tempo.

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