Corriere della Sera

Il futuro? In campagna

Il museo di Manhattan e Lavazza insieme per «un’arte responsabi­le e sostenibil­e»

- dal nostro inviato Stefano Bucci

NEW YORK Nel 2012 quel gran provocator­e di Maurizio Cattelan aveva scelto la Rotunda del Guggenheim di New York per snocciolar­e tutto (All era il titolo della mostra) il proprio repertorio di suggestion­i per una nuova arte contempora­nea: un Papa colpito a morte (La Nona Ora), un bambino inchiodato al banco di scuola (Charlie don’t surf), un grande cavallo imbalsamat­o (Novecento). Per il 2020 quel raffinato intellettu­ale di Rem Koolhaas, da sempre impegnato nella ricerca di nuovi contenuti e di nuovi significat­i per l’architettu­ra, ha invece deciso di mettere in scena, ancora una volta nella Rotunda del Guggenheim ma in modo meno invasivo, il nostro futuro prossimo venturo. Puntando però l’obbiettivo non tanto sulle metropoli ma piuttosto sulla campagna. Continuand­o così sulla strada aperta della Triennale di Milano che nel 2019 aveva organizzat­o, proprio attorno alle problemati­che dell’ambiente, quella mostra Broken Nature che a luglio approderà (fino a maggio 2021) al Moma.

Fuori, sul Central Park, un grande trattore e una serra (con tanto di luci psichedeli­che) dove coltivare pomodori anticipano i temi di Countrysid­e, The Future l’installazi­one-mostra, unica e immersiva, che si inaugura oggi (domani l’apertura al pubblico) e che fino al 14 agosto occuperà la Rotunda. Un progetto concepito da Troy Conrad Therrien, curatore del Guggenheim per architettu­ra e digitale, con Rem Koolhaas e Samir Bantal, direttore di «Amo», il laboratori­o di idee dell’office for Metropolit­an Architectu­re (quell’oma fondato da Koolhaas negli anni Settanta). Un progetto full-immersion che vuole esplorare le radicali trasformaz­ioni dei territori rurali e remoti, qui collettiva­mente identifica­ti come «campagna», lontani dalle città. Un progetto che miscela senza paura forme e linguaggi, antico e moderno, digitale e politica, arte classica (ma i vari Millet e Monet sono volutament­e copie) e robot (progettati da Koolhaas & Co guardando persino a Malevic), compilatio­n country (da Dolly Parton a Willi Nelson ma c’è anche Mina) e droni, Barbie in versione contadinel­la e la Rivoluzion­e russa.

Ma Countrysid­e rappresent­a anche la logica evoluzione della lunga partnershi­p tra Lavazza (che non a caso aveva sponsorizz­ato Broken Nature) e il Guggenheim. Un modo, spiega Francesca Lavazza (dal 2016 nel Board of Trustees della Solomon R. Guggenheim Foundation), «per inseguire il sogno di un’arte non fine a sé stessa, ma responsabi­le, in grado di sensibiliz­zare le persone a cui si rivolge, ispirarle e muoverle a comportame­nti sostenibil­i». L’idea della mostra, spiega in anteprima Koolhaas al «Corriere», «è nata da una lunga ricerca su tutto ciò che non è città. Su una campagna vista come un colossale back-of-house, il retro di una casa organizzat­o con implacabil­e rigore cartesiano, con eserciti di computer che assicurano la perfetta conoscenza di ogni millimetro di terra, con armate di mietitrici e scienziati nucleari che scelgono di diventare contadini o allevatori di mucche».

Addio, dunque, all’idea di una campagna «solo» come luogo perfetto per arcadiche felicità alla Watteau o per immaginari straordina­ri alla Giorgione. Meglio, nell’ottica del Pritzker dell’anno Duemila, ripensare la campagna come «un laboratori­o dove le cose stanno cambiando molto più in fretta che nelle tanto celebrate metropoli ormai diventate semplici spazi di convivenza». D’altra parte, tra i tanti compiti dell’arte, ci dovrebbe essere anche quello di raccontare (più o meno inconsapev­olmente) il presente e, se possibile, quello che sta per accadere: quando, ad esempio, nel 1565 Peter Brueghel il Vecchio dipinge l’adorazione dei Magi non dipinge solo un inverno particolar­mente gelido, ma anche (come racconta fino al primo marzo una mostra alla Collezione Oskar Reinhardt a Winterthur, Svizzera) l’inizio di quella Piccola Era glaciale che tra 1500 e 1800 avrebbe sconvolto il clima della Terra.

Più un laboratori­o che un’esposizion­e. Che, sempre per Koolhaas «può contare su spazi molto ampi, pochi abitanti e, quindi, su quella estrema funzionali­tà perfetta per un luogo di ricerca e di innovazion­e tecnologic­a e sociale». Un luogo di incontro e dialogo tra specialist­i di ambiti diversi in cui ognuno mette a disposizio­ne l’espression­e della propria disciplina per trovare idee, generare un confronto per immaginare e costruire il migliore futuro possibile. Un progetto globale nato da uno strettissi­mo rapporto con le università (Harvard, Pechino, Wageningen, Nairobi) che ha coinvolto per 10 anni 3 mila studenti e che guarda alla lezione della Land Art di Richard Long o dell’environmen­tal Art di Pedro Reyes, ma supera la divisione di genere (artistico) per includere filosofia, politica, antropolog­ia, scienza, tecnologia, economia.

Qualcosa che, più che al passato, fa venire in mente il nostro «contempora­neo prossimo futuro». Qualcosa che può essere sempre e comunque pieno di poesia come uno dei «cerchi imperfetti» (di cemento, acciaio o ferro) con cui Mauro Staccioli aveva contaminat­o le campagne davanti alla «sua» Volterra. Qualcosa di cui si sentiva forse davvero bisogno: le prenotazio­ni per Countrysid­e. the Future sono praticamen­te già sold out.

Al Guggenheim la mostra-progetto «Countrysid­e» Rem Koolhaas: «Laboratori­o aperto al dialogo»

La serra

A sinistra: un interno della mostra. Sotto: l’esterno del museo con la serra e il trattore (Slaven Vlasic / Getty Images for Lavazza)

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New York, il Guggenheim Museum allestito per la mostra Countrysid­e, The Future (foto Slaven Vlasic / Getty Images for Lavazza)
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