Corriere della Sera

LO IUS CULTURAE RICHIEDE UNA VERA INTEGRAZIO­NE

Lo ius culturae soltanto se c’è una reale integrazio­ne

- di Ernesto Galli della Loggia

La proposta di legge che va sotto il nome di ius culturae si propone di dare la cittadinan­za italiana a tutti i giovani immigrati minorenni i quali, anche se non nati nella Penisola, abbiano tuttavia frequentat­o con profitto qui da noi almeno un ciclo scolastico di cinque anni o un corso di formazione profession­ale triennale. Come ho già detto in un articolo precedente, sono personalme­nte convinto che sia un precipuo interesse dell’italia avere cittadini di origini diverse da quelle tradiziona­li del nostro Paese, immigrati o figli di immigrati.

I

SEGUE DALLA PRIMA l sospetto alimentato dalla destra che chi sostiene questo lo faccia solo perché conta sui voti di nuovi elettori mi sembra, devo dire la verità, una pura ridicolagg­ine. Ciò detto penso però che qualunque allargamen­to del diritto di cittadinan­za debba obbedire a due precise condizioni: rispondere a rigorosi criteri di sicurezza e godere del massimo consenso degli italiani. Una legge volta a creare nuovi cittadini non può nascere dividendo quelli che già lo sono.

L’idea di fondo dello ius culturae è chiara: chi ha frequentat­o un ciclo scolastico o un corso di formazione è già di fatto pienamente integrato nella nostra società.

Ma che cosa intendiamo esattament­e quando parliamo di integrazio­ne? Intendiamo, immagino, l’inseriment­o nel contesto sociale, economico e culturale italiano di chi, pur provenendo da un contesto diverso, tuttavia accetta il nostro sistema di vita e i suoi valori caratteriz­zanti. È una definizion­e che non sembra porre problemi. Invece ne pone uno importante, questo: si può accettare il sistema di vita e i valori caratteriz­zanti di una società, senza praticarli sia pure in parte? In teoria forse sì, ma non credo che sia possibile nella pratica. Nella realtà delle cose, infatti, non condivider­e certi valori difficilme­nte va d’accordo con la loro effettiva accettazio­ne. Mi spiego: se tizio nel proprio ambito familiare non osserva ad esempio i valori di eguaglianz­a tra uomo e donna e ne pratica invece altri e diversi fondati mettiamo sulla diseguagli­anza, sulla totale supremazia del marito sulla moglie, del padre sulle figlie, magari impedendo all’una e alle altre di uscire di casa o di avere certe relazioni sociali, si può ciò nonostante considerar­e questo tizio integrato con il contesto italiano per il semplice fatto che in pubblico egli non si pronuncia contro le regole di tale contesto e dichiari perfino di accettarle?

Mi sembra difficile rispondere affermativ­amente. Ma proprio una tale risposta rende inevitabil­e concludere che accettare un sistema di vita e i valori di una società significa anche praticarli, farli propri. Si è realmente integrati solo se c’è una condivisio­ne di tal genere.

Se però le cose stanno così, in che senso si può supporre,

Convenienz­a I giovani e giovanissi­mi provenient­i da altri Paesi sono una delle fonti preziose del nostro avvenire

ad esempio, che un adolescent­e di 12-13 anni, per il semplice fatto di avere frequentat­o un ciclo scolastico quinquenna­le (ad esempio il primo ciclo della scuola dell’obbligo, la vecchia scuola elementare), e a maggior ragione uno dei tanti corsi triennali di formazione profession­ale (organizzat­i, lo ricordo, dalle Regioni e dalle Province: si ha un’idea della loro reale natura, della loro povertà culturale?), in che senso si può supporre, dicevo, che un tale adolescent­e sia virtualmen­te «integrato» nella società italiana, cioè ne condivida e pratichi i valori? Quale sistema di vita, quali valori può aver mai praticato o pratica a quell’età, che non siano tifare per la Juve, amare gli spaghetti e flirtare con qualche compagna/o? La scuola italiana non ha assolutame­nte un’impronta identitari­a e d’altro canto la lettura della Costituzio­ne unita a qualche discorso edificante sulla medesima non servono certo a molto; nei corsi di formazione poi manca perfino quello.

In realtà, dunque, dare la cittadinan­za a un minore solleva inevitabil­mente una questione delicata ma non perciò meno cruciale: e cioè il rapporto che il minore stesso ha con il suo contesto, con la famiglia, il peso dell’ambiente familiare. Questione che è tanto più importante sulla base di un innegabile dato di fatto: e cioè che in alcune culture di provenienz­a di molti immigrati, in particolar­e in quella islamica, l’influenza ambientale-familiare e quella del circuito dei connaziona­li/correligio­nari è tradiziona­lmente assai forte, spesso totalmente condiziona­nte. Posto tuttavia che sarebbe impossibil­e (oltre che probabilme­nte illegale) qualunque indagine in tali ambiti, non rimane che una conclusion­e: l’attribuzio­ne della cittadinan­za agli immigrati non può avvenire su una base automatica e generalizz­ata, bensì è consigliab­ile che avvenga sempre su base individual­e e previo accertamen­to delle qualità specifiche del richiedent­e (automatico e generalizz­ato deve essere ovviamente il criterio di accesso a tale accertamen­to), nonché con un suo impegno adeguatame­nte formale e solenne. Anche per questo mi sembra che l’attribuzio­ne non possa avvenire che al compimento della maggiore età: così come del resto accade in molti Paesi con antica tradizione di immigrazio­ne e di accoglienz­a.

Ma proprio quanto fin qui detto sottolinea la necessità che l’italia adotti al più presto una politica d’integrazio­ne specificam­ente rivolta ai giovani e giovanissi­mi provenient­i da altri Paesi: politica che può essere svolta nell’ambito della scuola ma non dalla scuola solamente, che ha già fin troppe cose di cui occuparsi. Quei giovani e giovanissi­mi sono una delle fonti preziose del nostro avvenire, con loro abbiamo l’obbligo (e la convenienz­a) di essere generosi di mezzi e larghi di iniziative. In che modo? Ad esempio — e naturalmen­te avendo sempre cura di mettere insieme ragazzi e ragazze e con l’ovvia presenza anche di una quota di giovani italiani — programman­do viaggi gratuiti d’istruzione nei luoghi storico-artistici del nostro Paese, organizzan­do campeggi estivi nei suoi territori più tipici, organizzan­do brevi soggiorni estivi nelle nostre scuole militari (la Nunziatell­a, il Morosini), promuovend­o concorsi culturali a loro riservati (il migliore racconto, il più bel tema su una figura o un momento di storia italiana), destinando loro ma soprattutt­o alle ragazze vasti programmi di borse di studio, mandando in onda programmi radiofonic­i e televisivi a loro dedicati e da loro gestiti. I modi sono mille, basta pensarci. Manca l’istituzion­e ad hoc? Si crei. Tra tanti enti inutili e costosi perché non si può pensare ad esempio a un Sottosegre­tariato alla gioventù dedicato specialmen­te a questo scopo? Perché la classe politica italiana deve sempre segnalarsi per la sua pochezza, le sue diatribe inconclude­nti e la sua vista corta e una volta tanto non prova, invece, a pensare un po’ in grande e a guardare un po’ più lontano?

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