Da abulico a sordido: le parole che scompaiono
Massimo Arcangeli: «Abulico, nemesi, sordido. In quanti sanno cosa vogliono dire?»
«Conciosiacosaché tu incominci pur ora quel viaggio…». Neanche il tempo di legger la prima riga de Il Galateo, come gli aveva raccomandato un uomo di Chiesa, e Vittorio Alfieri si sentì montare il sangue alla testa: «Ed alla vista di quel primo Conciossiacosaché, a cui poi si accorda quel lungo periodo cotanto pomposo e sì poco sugoso, mi prese un tal impeto di collera che, scagliato per la finestra il libro, gridai quasi maniaco: “Ella è pur dura e stucchevole necessità, che per iscrivere tragedie in età di venzett’anni mi convenga ingojare di nuovo codeste baje fanciullesche, e prosciugarmi il cervello con sì fatte pedanterie”».
Doveva essere il 1776 e quella parola usata come incipit del suo volume sui buoni costumi da monsignor Giovanni Della Casa nel 1558, oltre due secoli prima, gli sembrò vecchia, stravecchia e insopportabilmente ammuffita. Immaginatevi dunque le reazioni di un ventenne di oggi: può avere un senso, per un millennial, conservare vocaboli come quello, che nel Dizionario della lingua italiana di Carlo Antonio Vanzon del 1840 era tra i sinonimi di «perché, poiché, posciaché, perocché, imperocché, imperciocché, conciossiaché, conciofosseché, conciossiacosaché» e così via? Mah… Alla dipartita di «conciossiacosaché», in tutta onestà, possiamo sopravvivere. Requiem.
Nel suo delizioso Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua, oggi nelle librerie per il Saggiatore, il linguista Massimo Arcangeli lancia però l’allarme su almeno una cinquantina di parole prese ad esempio che hanno avuto, hanno e devono avere ancora un ruolo importante nella nostra vita, ma stanno via via perdendosi perfino fra gli studenti universitari da anni monitorati: «Abulico per uno è brutto (sconfortante l’esempio: “La pena di morte è un’abulia”), per un altro non aulico. Dire sordido, per diversi studenti, è lo stesso che dire chiaro, madido o umido, silenzioso (“E poi sentì un sordido tumulto”) o impronunciabile (“Rivelare un sordido segreto”), e modico è di volta in volta abitudinario, comune (“Non sei per niente originale, sei una persona molto modica”) o metodico (“Luigi esegue il lavoro modico”)». Per non dire di «solerte» il cui significato, stando agli esempi scelti da questi aspiranti laureati, è assai vario: «Una preghiera solerte», «Mio fratello ha fatto un giuramento solerte», «Solerte mi alzo di prima mattina». Da brividi.
Ci ha lavorato per anni, il linguista. Soprattutto tra gli studenti iscritti dell’ateneo di Cagliari e altre università. Identificando via via «tante parole italiane a rischio che vorrei invitare a usare (o a riusare) perché non siano abbandonate inermi al loro destino, per provare a sottrarle al pericolo d’oblio». Prendiamo «apodittico»: «Sulle 176 matricole universitarie testate nel 2019 ben 175 non hanno saputo indicare nessun sinonimo per apodittico. Un solo studente ha osato qualcosa, producendosi in un insufficiente — ma, perlomeno, non sconfortante — chiaro. Inconfutabile, irrefutabile, incontrovertibile, indiscutibile, indubitabile, innegabile, inoppugnabile, irrecusabile».
Un quadro spesso sconfortante: «Per alcuni blaterare è sinonimo di consultare o sussurrare; corroborare è come dire accorpare, considerare, continuare o rovinare (“Quel pezzo di ferro si sta per corroborare”); menzionare sta per coprire (“è stato menzionato dal padre”) o ingaggiare. Un coacervo è un raccolto, un fedifrago è un cannibale (“Il fedifrago mangiò il morto”), un ladro o un maniaco; un preambolo un avvertimento, un presentimento, una profezia e perfino un’apocalisse. Chi è sagace è un narcisista o uno pieno di sé, premuroso o temerario, mentre laconico, a seconda dei casi, può stare per assente o incisivo, inquieto o incompleto, triste o malinconico: “Questa canzone è laconica”».
Capiamoci, non è in ballo la comprensione di testi scientifici, tortuosi, bizzarri o desueti come, a proposito della parola «protervia», un passaggio del librettista Arrigo Boito: «E sogno amplessi eburnei,/ e voluttà mordaci,/ fulve ambubaie, eterie/ dai sapïenti baci;/ e il cielo, altezza impervia,/ derido e di protervia/ m’indraco e di velen». Parola tra l’altro spiegata in una riga da Roberto Gervaso: «La protervia è la prepotenza che ha perso le staffe».
Risultano incomprensibili, a troppi studenti che hanno superato l’esame di maturità (magari con bei voti), anche vocaboli facili facili: «Dei 372 studenti universitari di primo anno testati nel 2011 e nel 2019, ben 274 non sono stati in grado di indicare alcun sinonimo di pusillanime, gli altri hanno risposto nei modi più diversi. Esempi? Scansafatiche:
“Non fai mai nulla, pusillanime”. Truffatore: “È un pusillanime che inganna le vecchiette”. Cafone: “Quell’uomo è proprio un maleducato, un pusillanime”».
Non si tratta, sottolinea lo studioso, di uno stupidario medico orecchiato nelle corsie di ospedali periferici dove trionfano le «vene vanitose» e il «parto extraluterano», l’«ulcera doganale», l’«erezione cutanea», il «morbo di Pakistan», l’«ictus cereale» e il «cactus cerebrale»… Ma del panorama troppo spesso comico, se non fosse tragico, d’una emorragia culturale di base di cui quasi finiamo per non renderci conto. Dentro la stessa università. Dove la stessa parola «indigente» può essere interpretata dagli aspiranti medici, avvocati, ingegneri o docenti di domani con significati incredibili: «Si è assentato dal lavoro senza giustificazione. È un indigente»; «Sei proprio indigente»; «Il capo ufficio è davvero indigente»; «La sua famiglia ha affrontato delle spese indigenti».
Rileggiamo Giovannino Guareschi: «“La nemesi storica!” disse con voce solenne Peppone. Don Camillo si preoccupò. “La nemesi storica e, se non basta, anche la nemesi geografica!” continuò Peppone. “E se non basta ancora…”. “Credo che basterà” rispose don Camillo che, sentendo parlare di nemesi geografica, era subito tornato tranquillo». Un capolavoro. Immortale. «Nemesi è un termine più specifico di punizione, vendetta o castigo», scrive Arcangeli fornendo come sempre una spiegazione, «Indica la giustizia riparatrice, che ricade inesorabile sui discendenti dei responsabili di un torto, un’ingiustizia, un delitto; le sue vittime, se la nemesi è storica, sono perlopiù nazioni, popolazioni, stirpi familiari o altre entità territoriali o complessi di persone che presuppongano il passaggio da una generazione alle successive. Espiamo una pena se a scontare le nostre colpe siamo noi, subiamo una nemesi se, pur innocenti, veniamo puniti per le colpe di un nostro predecessore o antenato».
Eppure la maggioranza dei giovani universitari monitorati, di nemesi, non ha saputo dare un solo sinonimo. Non uno. Non sanno, gli innocenti, di scontare non solo le colpe loro ma soprattutto di chi da decenni della scuola si occupa così, come capita… Lasciandoci davvero senza parole.
«Per alcuni corroborare vuol dire rovinare: quel pezzo di ferro si sta per corroborare»