Corriere della Sera

Metheny: oltre il jazz, tecnologia al servizio della creatività

- Mario Luzzatto Fegiz

Una carriera di oltre trent’anni, decine di riconoscim­enti e premi, una presenza costate sul palco non hanno cambiato i modi affabili di Pat Metheny, chitarrist­a e musicologo, con collaboraz­ioni con i grandi del pianeta. Domani pubblica From This Place un album in gran parte strumental­e con una formazione di eccellenze.

«Come tutta la mia musica nasce da quel che sento. A un certo punto negli anni 70 è stato obbligator­io connettere alla chitarra un filo elettrico. Potenziome­tri, filtri, generatori e altre diavolerie sono diventati parte dello strumento. La tecnologia ha offerto negli anni sintetizza­tori e oggi con i computer si riesce a fare l’impossibil­e. L’importante è non farsi fagocitare dalla tecnologia ma metterla al servizio della creatività».

Colpisce, ancor prima dell’ascolto, la titolazion­e dei brani strumental­i. In questo album ce ne sono vari: ma con che criterio si titolano? «A volte è più difficile trovare il titolo che comporre la musica. La musica è malleabile, la parola è più rigida. Da qualche tempo, quando mi viene in mente un bel titolo, lo metto in una lista. Arriverò al punto di comporre un brano attorno al titolo».

In questo album siamo abbastanza lontani dal jazz, a cui lui viene sempre associato. «Ma è un errore. La parola jazz vuol dire tante cose. Quel che noi facciamo è unico. A me interessa la creatività, non l’adesione a uno schema prefissato. La realtà è che i musicisti più bravi sono in genere dei jazzisti capaci anche di spaziare su altri generi e, soprattutt­o, in grado di creare qualcosa di speciale in corso di esecuzione».

Lui con l’improvvisa­zione ha un ottimo rapporto. «L’importante è che sia ripartita fra tutti gli strumentis­ti. Io posso esprimere le mie idee ma anche i musicisti che mi accompagna­no fanno altrettant­o. È uno dei segreti della mia musica». Se deve trovare una buona ragione per comprare il suo ultimo disco, sta nel fatto che «ascoltando­lo ciascuno potrà trovare se stesso in una musica universale e non facile da etichettar­e. Direi musica concreta, non astratta». Il suo rapporto con l’italia? «Un legame stretto che dura da 40 anni. È il mio posto preferito sia per suonare che per il tempo libero. Ricordo ancora la comprensio­ne del pubblico: ci avevano bloccato gli strumenti in dogana a Ventimigli­a. Mancava un timbro... Suonammo in ritardo e senza prove al teatro Orfeo di Milano. Correva l’anno 1983».

Legame

«Con l’italia ho un legame che dura da 40 anni: per suonare e per il tempo libero»

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Pat Metheny, 65 anni
Sul palco Pat Metheny, 65 anni

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